A TRIESTE (Vinko Šumrada “Radoš”)

Vinko Šumrada

A Trieste

(dossier a cura de La Nuova Alabarda – Trieste 2005)

Nel 1974 furono pubblicati a Lubiana, a cura della Založba BOREC, due volumi intitolati “Spomini na partizanska leta” (“Ricordi degli anni partigiani”); nel secondo di questi volumi si trova questo breve racconto di Vinko Šumrada, che descrive la sua esperienza di organizzatore della Resistenza a Trieste negli ultimi dieci mesi di guerra.
Pubblichiamo oggi la traduzione di questo racconto autobiografico per far comprendere a chi lo prenderà in mano quale era il tipo di vita e quali erano i rischi che dovevano affrontare gli antifascisti militanti che intendevano lottare contro il nazifascismo e per una nuova società. I compagni di Šumrada non ci appariranno come superuomini od eroi, però incontreremo uomini e donne coraggiosi ed intraprendenti, a volte anche ingenui, ma sempre mossi dal desiderio di lottare per un mondo migliore, e che non esitarono a mettere a repentaglio la propria vita per il loro ideale.
In nota abbiamo aggiunto al testo alcuni particolari chiarificatrici per i lettori, sia sui nomi dei protagonisti (che nel testo sono riportati spesso solo con i nomi di battaglia), sia su alcuni degli eventi descritti, che in alcuni punti del testo originale sono imprecisi o non molto chiari per chi non ha vissuto quelle esperienze oppure non conosce bene la storia del periodo. Ci siamo basati soprattutto sul testo “Trieste nella lotta per la democrazia”, edito dall’Unione Antifascista Italo-slovena nel novembre del 1945.
Ringraziamo Freya Behrens per la traduzione dallo sloveno e Samo Pahor per l’indispensabile revisione del testo, sia linguistica, sia storica; un sentito grazie anche a Giuditta Giraldi che ci ha chiarito il significato di alcuni termini “tecnici” partigiani, per noi altrimenti intraducibili; ma un ringraziamento particolare va a Vera Puntar, perché se non ci avesse fatto conoscere questa pubblicazione dandocene una copia, questo lavoro non sarebbe mai uscito.

Vinko Šumrada
Nota biografica tratta dal testo originale.Vinko Šumrada nacque il 6 luglio 1916 a Podgora nella Loška dolina. Il suo lavoro era quello di operaio forestale. Iniziò a collaborare con l’Osvobodilna Fronta (OF, Fronte di Liberazione) nel settembre del 1941 e nel luglio 1942 entrò nelle file della Resistenza. Divenne commissario del II battaglione della Brigata di Šercer e successivamente commissario della Brigata Ivan Gradnik, commissario della Brigata Janko Premrl-Vojko, capo dell’ufficio del personale del IX Corpus, ed infine fu il commissario politico del comando clandestino di Trieste fino alla fine del mese di aprile 1945 quando divenne ufficiale dell’OZNA.
Quando nel luglio 1944 si iniziò a parlare dello sbarco segreto degli Alleati, Inglesi e Americani, nel settore adriatico, il comando del IX Korpus NOV e POJ , che combatteva nel litorale sloveno, decise di costituire un comando a Trieste allo scopo di organizzare clandestinamente una cooperazione tra i popoli italiano e sloveno e preparare il necessario per l’insurrezione in città nel momento in cui si fossero avvicinate le truppe alleate. In tale modo avrebbe aiutato gli alleati nella liberazione di Trieste, che era un porto importante per il loro sbarco, ed avrebbe instaurato il potere in città. In quel tempo accadeva che l’esercito germanico cercava con l’offensiva del luglio ‘44 di riprendersi il territorio liberato sul Litorale, territorio che comprendeva parte della regione a nord della valle di Vipacco, da Trnova (Tarnova) a ?epovan (Chiapovano), Bainsizza tutti questi oltre il monte Šentvišk (S. Vito) fino a Ratitovec, Železniki, Lu?e e Rovte. L’unica zona non liberata era Idrija nella quale rimaneva un forte presidio germanico.
Durante questa offensiva, quando il comando del IX Korpus doveva spostarsi da Lokev nella Selva di Tarnova a Predmeja, fui chiamato dall’allora commissario del IX Corpus, Janez Hribar. Con me fu chiamato al comando il maggiore Martin Greif – Rudi, ufficiale di collegamento con le missioni militari alleate presso il comando del IX Korpus . Qui (a Predmeja, n.d.r.) si trovava anche la rappresentante del comitato esecutivo dell’OF , Lidja Šentjur?. I due (Hribar e Šentjur?, n.d.r.) ci spiegarono il nostro incarico, che di primo acchito ci sembrò eccezionalmente disperato e rischioso, in quanto Trieste era nota per i numerosi tradimenti degli infiltrati, cosicché nella città un attivista aveva poche possibilità di operare a lungo. Un’altra difficoltà consisteva nel fatto che Greif non parlava l’italiano; conosceva però il tedesco, mentre io non conoscevo né l’una né l’altra lingua. Nonostante ciò abbiamo accettato l’incarico ed abbiamo iniziato a prepararci al viaggio verso Trieste.
Alla fine di luglio ‘44, siamo stati accompagnati dai corrieri Triglav e Franc nella regione del Vipacco, dove abbiamo dovuto procurarci come prima cosa abiti civili, trovare documenti italiani per stabilirci a Trieste ed organizzare i necessari collegamenti tra i corrieri ed il IX Korpus. Ci siamo fermati anche a Šmarje dove siamo rimasti una settimana nella casa ospitale dell’attivista Erna , in attesa di regolare le formalità. Mi ricordo anche che ho barattato con il parroco della cittadina i miei scarponcini nuovi con le sue scarpe civili. Il parroco era già uno dei nostri migliori funzionari e già da tempo collaborava con il Fronte di Liberazione .
Ci sentivamo a disagio nel dirigerci verso una città dove non eravamo ancora mai stati, dove non conoscevamo né la situazione né la lingua, dove dovevamo cominciare tutto da capo, soprattutto lavorare nel settore militare perché fino allora tutto il lavoro delle organizzazioni a Trieste si fondava sul lavoro politico. Il fatto che stavamo andando a lavorare a Trieste doveva rimanere segretissimo, affinché il nemico non venisse a sapere che stavano per arrivare due ufficiali. Per restare in contatto con il Korpus fu fissata una stazione per i corrieri che aveva sede all’inizio a Vrtovinj, poi si è trasferita a Planina presso Vipacco, poi a Ozeljan, Štomaž e così via. Il collegamento con Trieste lo tenevano alcune donne. Questo collegamento era molto pericoloso e temerario perché per andare verso Trieste si doveva passare attraverso i blocchi; per uscire da Trieste si rischiava di incontrare postazioni fasciste, imboscate e blocchi sulle strade. Questo compito richiedeva ragazze coscienziose ed anche pronte al sacrificio, che peraltro non mancavano sul Litorale. Chiedemmo alla organizzazione giovanile a Šempas, vicino a Gorizia, due staffette per svolgere questo compito molto difficile. Si presentarono in due: Marta, piccola e grassottella e coscienziosa e Anica che era proprio il contrario di Marta, alta e bella. Abbiamo spiegato loro questo compito importante e rischioso, ma nonostante fossero perfettamente a conoscenza del pericolo hanno accettato l’incarico.
Il sesto giorno siamo andati assieme a Šmarje dove avremmo trovato le staffette che venivano da Trieste e che ci avrebbero accompagnato in città. Ci aspettavano Rada, che veniva da Lubiana e Zmaga che era stata incaricata di questo compito dal distretto di Vipava.
La mattina del 13 agosto sono giunte due staffette, Zvezda e Mariuccia , la prima slovena di Trieste, la seconda vera triestina, ragazza con sangue mezzo italiano e mezzo sloveno che non conosceva altre parole slovene all’infuori di “Smrt fašizmu, svoboda narodu!” (morte al fascismo, libertà al popolo”). Abbiamo deciso di metterci in cammino il mattino seguente. A Šmarje c’era a quel tempo anche Matevž , membro del consiglio provinciale dell’OF per il Litorale, e Vran . Ambedue lavoravano clandestinamente a Trieste. Fummo avvertiti che a Trieste bisognava assolutamente camminare dappertutto con una donna – staffetta. Più attraente era la ragazza, più la questura lasciava perdere, pensando ad intrallazzi amorosi. In pochissimi casi soltanto gli agenti si fecero mostrare i documenti da una coppia.
Il 14 agosto 1944 di mattina siamo andati tutti e quattro con le bici attraverso Štanjel (San Daniele) a Krajna Vas, dove la terenka Slava ci ha ospitato amichevolmente. Visto che eravamo ancora senza documenti e la strada oltre Duttogliano era pericolosa, le staffette proseguirono con le bici oltre Duttogliano ed Opicina fino a Rupingrande e noi due invece fummo accompagnati da due giovani staffette del posto attraverso alcune alture carsiche fino a Rupingrande dove al mattino ci siamo riuniti. I documenti non erano ancora arrivati da Trieste, per questo motivo Mariuccia nel pomeriggio dovette ritornare a Trieste. Ritornò la mattina dopo con le carte d’identità italiane e con i tesserini dei cantieri triestini. Ci assicurarono che i documenti erano a posto. Noi due abbiamo creduto a questo ed eravamo tranquilli, ma non sapevamo che se i documenti del lavoro erano scaduti da tempo e se li avessimo esibiti, la questura ci avrebbe arrestati al primo controllo.
La mattina del 15 agosto siamo andati a piedi da Rupingrande ad Opicina. Mi era difficile dopo due anni di vita partigiana in uniforme e scarpe pesanti camminare in abiti civili tenendo a braccetto una staffetta. Capisco quindi se più tardi la staffetta Mariuccia si lamentò che mi comportavo in maniera goffa. Mi era difficile umanamente camminare in mezzo ai fascisti dopo due anni passati a guardarli attraverso il mirino del fucile.
Eravamo quasi giunti ad Opicina quando incontrammo una guardia. Un fosco fascista faceva la guardia al passaggio a livello oltre la ferrovia. Per un momento tutti e due rallentammo il passo, ma le staffette si misero a ridere allegramente, ci strinsero a sé e oltrepassammo indisturbati la guardia fino ad Opicina, dove però emerse un altro problema. Le vie erano piene di tedeschi e militi fascisti dell’esercito italiano, ed anche di gente comune e noi a coppie camminavamo in mezzo a tutta questa gente. Siamo stati superati da una ragazza con una borsa sulla bici dalla quale sporgeva una bottiglia di latte, inclinata in modo tale che il latte si versava in strada. Greif voleva avvisare questa ragazza e le gridò dietro: “Hej, compagna, stai versando il latte!”.
La ragazza si spaventò al punto che quasi cadeva dalla bici, ma non certo perché stava versando il latte, quanto perché qualcuno l’aveva chiamata compagna, e questo ad Opicina! A parte questo episodio siamo andati tranquillamente avanti.
La prima impressione che si ha arrivando a Trieste da Opicina è indimenticabile. Trieste è situata in una conca come se fosse tenuta nel palmo di una mano ed il porto ed il mare, e le vie cittadine sono tutte come un grande plastico. La grandezza della città ci ha alquanto impressionato, ma ci domandavamo se avremmo potuto andarcene un giorno da questa città o se saremmo finiti nelle carceri del Coroneo. Passando per Scala Santa e via Udine siamo arrivati alla stazione e qui ci siamo salutati. Martin è andato via con Zvezda, io e Mariuccia siamo saliti sul tram che ci portò verso San Giacomo. Guardavo il viavai in città, la stupenda riva vicino alla quale siamo passati col tram ed il panico che cresceva quando la sirena ha suonato un piccolo allarme e siamo arrivati subito a San Giacomo. Ancora un breve tratto di strada a piedi e siamo arrivati in via Lorenzetti, dove ci siamo fermati presso l’attivista Žic, lavoratore in fabbrica . Qui ho trovato la compagna Majda, una giovane attivista che per puro caso era venuta lì. Non mi aspettavano, né erano avvisati del mio arrivo. L’organizzazione era quella volta molto debole, ma sono stato ugualmente accolto bene finché non avessi trovato un altro alloggio dove stare.

A Trieste II

La prima settimana mi sentivo come se avessi scritto in fronte che ero un partigiano. Avevo paura di uscire in strada e non avevo il coraggio di andare da nessuna parte. In tutte le persone vedevo dei questurini e pensavo che non sarei mai riuscito ad ambientarmi in città. Dopo alcuni giorni ci siamo incontrati con Martin. Lui aveva le stesse sensazioni e non eravamo convinti di riuscire nel nostro incarico.
Dopo un po’ di tempo ci siamo ambientati. Dopo due, tre settimane andavamo già in giro da soli per le vie di Trieste, eravamo in grado di comprare il “pi?olo” (cioè il biglietto del tram) e girare con i mezzi pubblici. Abbiamo imparato le parole italiane più necessarie. Dopo la prima settimana mi sono trasferito in un nuovo alloggio nel rione di Santa Maria Maddalena presso un’anziana signora che aveva un figlio partigiano e l’altro a casa. Lei è diventata la nostra “zietta”, presso la quale ci riunivamo per tutto il tempo che è durata la nostra attività. Dal 1942 in poi aveva ospitato diversi clandestini ma non fu mai perquisita ed è arrivata felicemente e senza problemi al momento della liberazione di Trieste. Da Žic avevamo sistemato Marta e Anica che avevano il compito di fare le staffette alternativamente due volte alla settimana, cosicché una di loro era sempre in viaggio.
Dopo un paio di giorni mi trasferii in via dell’Istria presso il panettiere Vincenzo. La moglie si mise a piangere per la paura quando seppe che avrebbe avuto in casa un partigiano. Pensava che sarebbe arrivata una persona rozza, ma già dopo un paio di giorni si calmò del tutto. Più tardi arrivò a considerare come membri della propria famiglia tutti i partigiani ed i clandestini. Presso la “zietta” sistemammo anche il radiotelegrafista Boris che arrivò a Trieste una settimana dopo di noi.
Incominciammo quindi l’organizzazione del comando della città. Ogni comitato rionale ci diede il migliore dei loro attivisti, che adibimmo esclusivamente per l’organizzazione militare . Mi ricordo così che a Servola l’incaricato era Valentin, impiegato presso una fabbrica del posto, a Longera e Rozzol c’era Cvek , a San Giacomo Žic, in centro città Rasto , a Barcola Milan , a San Giovanni Martin II, nel rione invece Silvester . Con Martin Greif, che era il comandante del comando città Trieste, ed io che ero il commissario politico, abbiamo presto organizzato le varie sezioni e battaglioni specifici in tutti i rioni della città.
Mi ricordo che abbiamo così organizzato in città a fine ottobre ‘44 già 950 uomini, che certamente erano molto pochi per Trieste, ma comunque diventarono il nucleo dal quale nacque più tardi una potente organizzazione che fu capace di organizzare una forte insurrezione popolare in città all’epoca dei combattimenti per Trieste.
Abbiamo iniziato ad occuparci del nostro lavoro soprattutto organizzando innanzitutto l’Unità operaia italo-slovena, la quale aveva come principale punto chiave la coesione tra lavoratori italiani e sloveni, dai quali abbiamo tirato fuori i migliori organizzatori clandestini e non clandestini. Dalla classe operaia sono usciti quasi tutti i dirigenti che oggi guidano Trieste nella lotta per la democrazia.
Già dopo tre settimane mancò poco che non perdessi la testa. Mi avevano avvertito che due operai dell’organizzazione Todt erano pronti a collaborare clandestinamente e a darci una grande quantità di armi che potevano sottrarre ai tedeschi. Si trattava di cinque fucili mitragliatori “Schartz”, più fucili e mitragliatrici e una grande quantità di munizioni. Ho preso al volo questa offerta e sono stato un ingenuo, andando nel posto che mi avevano indicato. La riunione si svolgeva in un’osteria in via Piccardi ma avevo la sensazione che loro non avessero intenzioni serie. Si comportavano in maniera troppo circospetta.
Dopo un poco sono andati via e l’ostessa, una buona slovena, mi ha invitato a cenare e dormire presso di loro. Non mi sentivo sicuro, quindi per questo motivo non ho cenato lì ma sono andato subito via. Solo dopo alcune settimane ho saputo che un quarto d’ora dopo che me n’ero andato, l’edificio fu circondata e la questura condusse una minuziosa perquisizione alla ricerca di partigiani nascosti nella casa.
Se si avesse dovuto tenere conto di tutti i pericoli cui si andava incontro ad ogni passo, non si sarebbe mai usciti di casa. I compiti che ci venivano affidati erano di tale responsabilità che non ci si poteva fermare a chiedersi se ci fosse il rischio di finire in carcere e poi bruciati nel crematorio di Servola . Per strada venivano improvvisamente istituiti blocchi, venivano chiesti i documenti alle persone ad ogni passo, specialmente sul tram. Il danno più grave ce lo ha fatto la questura spingendo nelle nostre file i provocatori e questo ha avuto gravi conseguenze per tutta la nostra organizzazione, specialmente quella giovanile e femminile.
Nella riunione del comitato cittadino dell’OF ho conosciuto gli attivisti Franc Štoka-Rado, segretario organizzativo, con Špela , Polonca , Morana , Sergej , Benjamin e gli italiani Gustin?i? e Destradi, Bara e altri clandestini, tutto ciò nonostante avessi il compito precipuo di tenere i contatti soltanto attraverso due clandestini subalterni nel comando della città e col segretario del comitato cittadino. Con Greif abbiamo capito presto che questo tipo di lavoro era molto cospirativo ma infruttuoso ed abbiamo iniziato a collaborare con una cerchia più grande anche se per questo motivo abbiamo dovuto uscire allo scoperto.
In questo periodo è venuto a Trieste anche il bunkeraš Jaka. Era un uomo di 35 anni alto, calvo, tranquillo e molto socievole. Proveniva da qualche località della Dolenjska e già dal 1942 costruiva a Lubiana dei bunker clandestini. Poiché era molto ricercato dal nemico fu inviato a lavorare a Trieste. Neppure lui sapeva parlare italiano ma si è trovato bene e ci ha aiutato in molte cose. Brevemente descrivo ora gli inconvenienti e le difficoltà che abbiamo incontrato nella vita quotidiana perché non parlavamo italiano.
Jaka è andato un giorno dal barbiere, poco dopo essere arrivato a Trieste. È entrato nella bottega, si è fermato vicino alla porta ed ha iniziato a passarsi le mani nei capelli vicino alle orecchie per far capire che aveva troppi capelli. Il barbiere ha capito che era straniero. Lo ha fatto sedere ed ha iniziato a tagliargli i capelli. Quando era a metà lavoro, si è sentito l’allarme antiaereo. È ovvio che il barbiere ha abbandonato Jaka, lo ha messo fuori dalla porta ed è scappato nel rifugio. Jaka, che non conosceva la città, è corso dove vedeva correre altre persone ed è arrivato al rifugio dove ha atteso tre ore fino al cessato allarme. Dopo l’allarme ha cercato per circa un’ora il negozio del barbiere. Però qui ha avuto nuovamente sfortuna. La bottega era piena di gente. Infine il barbiere lo ha riconosciuto e Jaka è tornato a casa dopo cinque ore fatto di barba e capelli.
Alla fine di settembre abbiamo deciso di fare una riunione in viale XX settembre. Di questa via mi ricordo bene perché la nostra riunione è stata segnalata (alla polizia, n.d.r.) e la casa circondata. Ero d’accordo con Polonca, una componente del MO dell’OF , che mi avrebbe aspettato davanti all’ospedale, da dove saremmo andati assieme alla riunione, anche se io conoscevo la sede della riunione. Quando sono arrivato davanti all’ospedale ho visto fuggire Polonca oltre la strada e dietro di lei Bara, segretaria della commissione di propaganda, e cinquanta metri dietro di loro un questurino. L’ho riconosciuto facilmente perché i questurini erano tutti dello stesso stampo, tutti neri, per lo più napoletani, con un trench bianco e capelli imbrillantinati. In mano tenevano l’inevitabile “Piccolo di Trieste”.
“Diavolo”, ho pensato, “qui sta accadendo qualcosa”. Non ho più aspettato Polonca ma sono andato subito alla riunione per riferire quello che avevo visto. Sono andato in fretta oltre alcune vie fino a viale XX settembre e qui con apparente calma sono andato verso la casa stabilita. Qui ho visto già all’angolo le uniformi nere tedesche che sorvegliavano la casa. Davanti alla casa ho girato a sinistra e attraverso l’unico tratto ancora libero ho girato in via Battisti e verso il Rione . Mi sono seduto sul tram. Avevo intenzione di andare verso San Giacomo. Il tram aveva appena passato due fermate che è stato bloccato da una guardia che ha iniziato a domandare i documenti. Ero convinto che per me sarebbe stata la fine ma rimasi seduto tranquillo in un angolo del tram, concentrato nella lettura del giornale. Il carabiniere ha chiesto i documenti a tutti i passeggeri, ma quando ha visto che leggevo non mi ha voluto disturbare; o forse avrà pensato che se tutti gli altri erano in regala lo sarei stato anch’io. Il carabiniere è sceso dal tram ed io sono arrivato indisturbato a San Giacomo.Polonca e Bara sono scappate. È vero che la questura aveva riconosciuto Polonca visto che avevano una sua foto e la sorvegliavano continuamente. Bara invece di correre nella direzione opposta in modo che, nel caso le avessero arrestate, avrebbero arrestato una sola e non tutte e due, si mise a correre dietro a Polonca. Quando più tardi ho criticato il suo comportamento, si è giustificata dicendo che correva dietro a Polonca per la pura curiosità di vedere se la arrestavano.
La terribile ingenuità dei clandestini, ed in particolare quella di chi non era in clandestinità, a Trieste ci ha causato dei problemi davvero grossi. I triestini, che erano in sostanza onesti e antifascisti, si sono lasciati ingannare facilmente dai vari provocatori e così è successo che in novembre tutte le nostre organizzazioni hanno subito un grave tradimento e ne sono rimasti relativamente indenni soltanto il nostro Comando della città e l’organizzazione dell’Unità Operaia, dato che lavoravamo in maniera molto più prudente.
Il primo tradimento iniziò in centro. Il 22 ottobre Rasto aveva una riunione con il comando rionale che era stato tradito. L’incontro era in centro città nel sottotetto di un edificio di cinque piani. Quando sono arrivati tutti (cinque o sei), tra essi Rasto quale comandante e il suo vice, un certo Leon , i questurini hanno aperto la porta e li hanno obbligati ad alzare le mani con le pistole. I membri del comando hanno commesso l’errore di andare tutti disarmati, nonostante avessimo precedentemente dato disposizione che ogni gruppo, e specialmente il comando, doveva andare armato alle riunioni, affinché, in caso di tradimento, almeno qualcuno riuscisse a scampare alla cattura. Così invece si trovarono tutti e sei disarmati davanti alla polizia.
Alcuni questurini si sono bloccati all’entrata e sulle scale, uno con due revolver è entrato nell’appartamento. Rasto ha cercato di convincere i compagni ad attaccare assieme il questurino per prendergli le armi e gettarlo fuori dalla finestra, e dopo scendere in strada con le armi. Ma erano troppo impauriti e il questurino ha notato che Rasto era il capo, quindi si mise a controllare soprattutto lui. Quando è entrato nella stanza anche un secondo questurino, la guardia si è girata verso la porta, Rasto è uscito dalla finestra, è saltato sul tetto della casa attigua di cinque piani ed è sparito oltre i tetti tanto in fretta che il questurino non riuscì a capire come fosse sparito. Rasto è giunto lo stesso giorno alla nostra riunione, che si sarebbe dovuta svolgere in via Giuliani a San Giacomo, e ci ha raccontato l’accaduto.
“Diavolo!” ha detto “mi sono trovato sull’edificio vicino e non sapevo come scendere dal tetto. Ho guardato verso il cortile interno ma c’era un salto di circa venti metri; invece a due metri dal tetto era aperta una finestra. Sono saltato e sono rotolato attraverso la finestra nell’appartamento. Mi sono accasciato davanti ad una italiana stupita che ha urlato, perché non è normale che dal cielo cadano certi regali. Ma le ho spiegato subito cos’era successo. Mi ha pregato solo di una cosa, di sparire al più presto dall’appartamento, perché non mi trovassero da lei. Sono sceso lungo le scale. Ma visto che ero convinto che anche l’entrata di questo edificio fosse sotto controllo, ho suonato al terzo piano ad un campanello. Mi ha aperto una signora di mezza età e mi ha domandato cosa volessi. Le ho chiesto di farmi entrare per spiegarle perché avevo suonato. Nel mio italiano stentato le spiegai che ero ricercato dalla questura e la pregai di nascondermi. La donna ha avuto un’idea migliore della mia. Ha fatto notare che non aveva posto dove nascondermi se avessero perquisito la casa, perciò ho lasciato da lei il cappotto, mi ha preso sotto braccio e siamo scesi chiacchierando ed abbiamo oltrepassato i poliziotti che si trovavano in strada; lì giunti, la donna mi ha amorevolmente pregato di andarla a trovare di nuovo, dato che eravamo vecchi amici. Al questurino vicino alla porta non è passato neanche per la mente che ero io quello che era scappato dalla casa attigua”.
La vita del clandestino è rischiosa, ma ha comunque un certo fascino. Ci si trova in un continuo pericolo, devi essere sempre prudente quando ti segue la polizia; devi stare sempre attento a rincasare soltanto dopo aver fatto dei lunghi giri viziosi; devi stare attento ai particolari dell’abbigliamento e soprattutto al comportamento in modo da dare il meno possibile nell’occhio. D’altra parte provi la soddisfazione che nonostante le difficoltà il tuo lavoro contribuisce a creare le basi per la vittoria.
La riunione quel giorno non si svolse in via dei Giuliani. Žic, che ci aveva promesso di aspettarci nel portone e di accompagnarci uno alla volta da qualche parte al terzo piano dove c’era un nostro simpatizzante, non si è presentato all’appuntamento. Da soli non potevamo quindi andare nell’appartamento perché nessuno conosceva chi ci abitava, e non sarebbe stato opportuno spingersi fino a lì.
Stavamo ognuno nel proprio angolo e guardavamo nella direzione da cui sarebbe dovuto arrivare Žic ma lui non apparve da nessuna parte. Cvek è arrivato per ultimo con un rotolo sotto il braccio. Lui, che aveva vissuto sempre a Trieste, non aveva paura. Era calmo come nessun altro. Ha srotolato la carta e tirato fuori una bottiglia di grappa che abbiamo in fretta finito tra tutti e sei. Abbiamo deciso di fare la riunione il giorno dopo nello stesso posto; ma nel caso fosse accaduto qualcosa di straordinario ci siamo accordati di comunicarcelo tramite un codice particolare.
Žic è arrivato nel mio alloggio verso sera.
“Sai, mi hanno arrestato in strada ed ero abbastanza preoccupato. Avevo con me due revolver ma non mi hanno perquisito. Hanno solo guardato come ero vestito, com’erano i miei capelli, fatto segni con la testa e mi hanno portato in questura. Lì ho mostrato i documenti e senza perquisirmi mi hanno messo in una cella dove sono rimasto un paio d’ore. In due ore si sono informati su chi fossi e cosa facessi e mi hanno lasciato andare nella convinzione che si era trattato di un equivoco”.
Tutto era chiarito. Visto che Rasto era fuggito, pensavano che avrebbe girato ancora nei paraggi per un bel po’ di tempo; per questo hanno fermato in strada tutti quelli che gli somigliavano. Žic ha dovuto ringraziare il fatto che i questurini erano degli incapaci se non è rimasto in carcere.
Neanche il giorno dopo il comando città poté riunirsi. La riunione era indetta per le 3 (del pomeriggio, n.d.r.) ma all’una suonò la sirena dell’allarme antiaereo. Camminare in città durante l’allarme era rischioso perché potevano rimanere fuori dai rifugi soltanto le persone del servizio di sicurezza ed i militari. Fino a quel momento Trieste era stata bombardata soltanto due volte. Il bombardamento angloamericano del 10 giugno 1944 aveva scopo intimidatorio. Bombardavano a tappeto soprattutto le abitazioni civili al punto da causare almeno 5000 morti . Il secondo del 10 settembre 1944 fu un bombardamento di minore entità, furono distrutte alcune abitazioni civili sopra il porto nuovo. Io non andavo nel rifugio (durante gli allarmi, n.d.r.) ma rimanevo sempre nell’appartamento di via dell’Istria. Seguendo il mio esempio rimanevano a casa anche i padroni. Gli allarmi si susseguivano quasi ogni giorno, a volte anche la notte, ma la gente non si preoccupava troppo.
Nei rifugi ogni tanto avvenivano dei controlli. Per me come clandestino non andava per niente bene perché non conoscevo la lingua. I triestini sono molto socievoli e parlano a tutti gli estranei come se si conoscessero da sempre. Era molto spiacevole per me dover sempre dire che ero un tedesco. Mi è accaduto una volta che un italiano si mettesse a parlare con me in tedesco, così mi sono trovato nuovamente in una situazione spiacevole, ma per fortuna sono riuscito ad allontanarmi dal rifugio molto velocemente.In quel giorno l’allarme iniziò a suonare all’una. Per lungo tempo non è accaduto nulla, gli aerei volteggiavano sopra la città. Davanti alla casa vicina, dove c’era una volta la scuola slovena di San Giacomo che aveva dei muri molto grossi, camminavano questurini. L’edificio, forte per causa della sua struttura, serviva provvisoriamente da rifugio antiaereo. La padrona di casa, Olga, mi ha invitato a recarmi con lei in questo rifugio dicendo che lì era più sicuro perché i muri erano robusti, ma io le ho risposto che era la stessa cosa se cadevano in testa 50 o 500 chili di pietre. Sono quindi andato nella mia stanza e intanto ho sentito il tipico rumore che fanno i bombardieri quando calano verso il basso e un attimo dopo ho sentito il sibilo delle bombe sganciate. Quello che è successo dopo non lo so esattamente. Il sibilo era cessato e si sentiva soltanto il rumore di macerie che cadevano intorno alla casa; ad un certo punto s’è fatto buio, le finestre sono esplose in mezzo alla stanza e il colpo d’aria ha divelto la porta con tutto lo stipite.
Quando mi sono ripreso mi sono trovato a terra vicino alla sedia. Nell’anticamera c’era la padrona accovacciata con la piccola staffetta Jana che le si stringeva alle ginocchia. Il padrone Vinko è sceso dal letto in fretta e furia – dato che lavorava di notte, dormiva durante il giorno – ha raccolto i miei pantaloni al posto dei suoi e li ha indossati al rovescio, con i bottoni dietro. Pian piano la polvere si depositava sul pavimento e così potei andare a guardare fuori dalla finestra. L’edificio dall’altra parte della strada era ridotto ad un cumulo di macerie. La scuola, quel robusto edificio che serviva come rifugio, era stata colpita da tre bombe delle quali una era penetrata fino alla cantina, distruggendola. Attraverso questa apertura la gente scappava, impaurita ed insanguinata. Gli altri erano morti o feriti. Gli edifici vicini erano tutti scoperchiati e l’edificio oltre l’incrocio, che era stato distrutto già nel corso del primo bombardamento ed era stato riparato dal proprietario, era stato nuovamente colpito. Le vie erano piene di macerie.
Sulla strada verso la chiesa di San Giacomo bruciava un’edicola, e lì vicino si dimenavano gli asini dei soldati tedeschi. Verso il mare, presso il cantiere San Marco, il bombardamento continuava. La padrona si lamentava in un angolo della stanza che la casa era distrutta. Io la consolavo dicendole che la cosa non era tanto grave, perché altrimenti ci saremmo trovati al pianoterra e non al terzo piano. L’edificio in via Giuliani dove avremmo dovuto riunirci era stato lesionato ed avevamo avuto fortuna che l’allarme avesse iniziato a suonare prima che andassimo in quella casa. La nostra sede centrale aveva subito nuovamente un duro colpo. La precedente sede principale, che dal 1942 si era trovata nella casa della staffetta Zvezda, era stata distrutta già nel primo bombardamento del giugno ‘44; più tardi avevamo organizzato la sede dove si raccoglievano la corrispondenza ed il materiale in via Giuliani, nella casa di fronte a quella dove intendevamo riunirci e dove c’era sempre di guardia una staffetta. Dell’intero edificio era rimasto intero solo un pezzo della facciata con l’arco sopra la porta e sotto questo arco era rimasta illesa la staffetta Neva.
L’allarme cessò appena dopo più di due ore. Le bombe cadevano esclusivamente sulle abitazioni civili a San Giacomo, in quella parte di Trieste dove vivevano soprattutto i lavoratori delle fabbriche triestine, dove abitava il proletariato di Trieste, su queste modeste abitazioni, dalle cui famiglie cento e mille appartenenti andarono ad unirsi alle brigate garibaldine oppure erano stati internati per attività antifascista nei campi di concentramento in Italia ed in Germania. Intatti rimasero invece gli arsenali marittimi, le fabbriche, gli edifici nel centro della città dove i tedeschi avevano le proprie istituzioni e le sedi dei loro organismi.
Poco dopo il bombardamento, che era stato uno dei peggiori a Trieste, cominciò anche il grande tradimento delle nostre organizzazioni. Finirono in galera più di cento dei nostri migliori attivisti. Nelle nostre file era tornato il provocatore Leon (Harrauer, n.d.r.) che aveva il compito di scoprire la rete della nostra organizzazione illegale. Lui aveva seguito tra i giovani, soprattutto nel Fronte antifascista femminile (AFZ), le cui esponenti portavano sempre con sé il provocatore addirittura alle riunioni, anche se non aveva nulla a che fare con loro. Alcune componenti dell’AFZ troppo loquaci gli hanno mostrato i vari collegamenti delle staffette e compromesso così la nostra struttura organizzativa. La prima parte di questo tradimento s’era già consumata con l’arresto del comando del rione centrale, del quale si era salvato solo Rasto. Dopo questo sono iniziati gli arresti di massa, prima le componenti dell’AFZ, delle quali le principali funzionarie o sono entrate nella più rigida clandestinità, oppure si sono spostate a lavorare fuori Trieste.
In qualche modo in quei giorni sono caduti nelle mani della Questura anche il segretario dell’organizzazione Rado Štoka e la sua staffetta Breda. Štoka stava tornando di sera nella sua abitazione di via San Nicolò e già quando si trovava ancora nell’atrio aveva notato che nel suo appartamento era arrivata la Questura. Non gli fu possibile sfuggire loro ma riuscì almeno a gettare via il giornale nel quale aveva nascosto vari elenchi ed annotazioni.
La polizia gli disse che lo avrebbe arrestato e lui protestò dicendo che era una persona onesta che stava semplicemente tornando a casa dal lavoro e quando gli hanno mostrato Breda, lui rispose ai poliziotti che era la sua fidanzata e che non erano affari loro. Doveva avere i nervi saldi. Gli dissero di non arrabbiarsi perché in tanti si erano arrabbiati e poi si erano calmati una volta in galera. Štoka andò tranquillamente al bagno, ebbe il tempo di lavarsi e cambiarsi d’abito perché la polizia aspettava che arrivasse ancora qualcuno nell’appartamento. Andò poi con loro in cucina e parlò con loro tranquillamente e durante questo andò verso la porta dove c’era il rubinetto dell’acqua. Per questo suo comportamento i questurini cominciarono ad avere dei dubbi sul fatto di avere preso l’uomo giusto.
Rado Štoka sapeva di non essere sorvegliato. Tornò dai questurini e poi andò nuovamente a bere dell’acqua. Quindi uscì come un razzo dalla porta e la chiuse dall’esterno con la chiave. Poi scese le scale e sparì nella notte. Breda e il proprietario dell’appartamento rimasero da soli nelle mani dei questurini che iniziarono ad interrogarli su Štoka. La mattina dopo mandarono un questurino con Breda e il proprietario dell’appartamento, un vecchio signore, in galera. Ciò che è accaduto dopo si può paragonare solo con le storielle della polizia di Butale e di Cefizelj . Il questurino li ha portati di nuovo all’appartamento dove vivevano e li ha pregati di aspettarlo in strada, dicendo che sarebbe tornato subito; ovviamente loro gli promisero di aspettarlo e lui è salito nell’appartamento del terzo piano. Come il questurino fu scomparso per le scale, così Breda si diede alla fuga e dietro di lei il padrone di casa. Non abbiamo mai capito se anche il questurino è rimasto come il poliziotto di Butale con Cefizel che gli mostrava la lingua, quando non li ha più visti.
Gli arresti erano aumentati. Più o meno nei primi giorni di novembre ero andato da Žic per degli incarichi. Mentre discutevamo è venuta un’attivista di nome Cveta il cui marito era già da un anno internato a Dachau. Ci ha avvertiti che il colpevole di tutti questi arresti era il provocatore Leon e che bisognava stare molto attenti a lui. Žic ha ammesso che Leon un paio di giorni prima era stato da lui e gli aveva offerto un ciclostile per la stampa clandestina, che lui aveva rifiutato. Visto che Leon era stato da Žic già dieci giorni prima, questi pensava che la polizia avrebbe potuto arrestarlo già da allora.
La staffetta Marta che mi ha portato la posta ha detto di avere sentito un discorso tra Žic e Leon e che non le era sembrato che Leon fosse così innocuo. Le ho consigliato di cambiare abitazione già da quella notte e di entrare in clandestinità, ma lei ha deciso di rimanere ancora una notte da Žic e di andare via la mattina dopo.
L’ho accompagnata di nuovo all’appartamento. Sulle scale ci siamo salutati e Marta è entrata nell’appartamento. Al terzo piano le è caduta di mano la bottiglia nella quale portava l’olio. Mi è sembrato strano come potesse essere stata tanto sbadata ma non ho avuto alcun presagio che ci fosse qualcosa di male.
Al mattino molto presto ho sentito che il padrone chiamava in cortile la mia padrona di casa Olga che doveva andare subito da lui perché era successa una cosa molto importante. Mi sono preoccupato perché mi sembrava che qualcosa non andasse bene e che la cosa “importante” mi riguardasse. Olga è tornata e mi ha detto che un attivista era venuto a portare la notizia: “stanotte i questurini sono andati da Žic, hanno arrestato Marta, si sono sistemati nell’appartamento e non lasciano uscire dall’appartamento né Žic né la moglie.
Questo mi ha colpito. Dopo gli arresti e questi grandi tradimenti che accadevano nelle carceri non ero più sicuro se Marta sarebbe riuscita a sopportare gli interrogatori, dato che sapeva dove abitavo, ma d’altra parte lo sapeva pure Žic, visto che era stato lui a procurarmi la casa. Mi sono alzato dal letto e sono andato via in cinque minuti. Mi sono affrettato innanzitutto perché se fossi stato tradito non mi trovassero nell’abitazione, secondariamente perché volevo avvertire Martin, Štoka, Polonca e gli altri clandestini. La cosa peggiore però era che lo stesso giorno doveva tornare la staffetta Anica con la posta del IX Korpus.
Per via di questi rapporti saltuari non sapevamo se sarebbe venuta dal Carso in bici, o a piedi oppure col treno né quando sarebbe venuta. Sono andato vicino alla casa di Žic e sull’angolo ho visto un questurino, sulle scale un altro e sicuramente nell’appartamento c’era ancora il resto del gruppo. Sapevo che sarebbe stata una cosa molto grave se Anica fosse caduta nelle loro mani con la posta ed anche con il cifrario che doveva portare per la nostra stazione radio, e se avessero trovato le armi che le staffette portavano sempre nelle sporte nascoste sotto i viveri e la verdura.
Martin l’ho trovato dalla nostra “zia” nella periferia di Santa Maria Maddalena, dove avevamo la stazione radio, una abitazione fissa ed un punto di ritrovo e di contatto.
“Ah così”, disse Martin, “brutta faccenda. Marta sa dove abiti tu, dove abito io e dove si trova la stazione radio. Mi fido di lei, ma se cominciano a romperle le ossa e strapparle le unghie non so come possa essere in grado di resistere”.
Alla fine abbiamo deciso così: attaccata alla casa di Žic abitava la famiglia del macellaio Babi?. Il marito era già da molto tempo a Dachau, la moglie era rimasta a casa con tre figli. Ci aiutava in molte cose ed aveva spirito di sacrificio. Siamo andati di corsa da lei!
Lei disse alla figlia dodicenne e il figlio di dieci anni di mettersi alla finestra e di stare attenti a quando fosse arrivata Anica. A qualunque costo l’avrebbero dovuto chiamare e portarla in casa, in modo che non cadesse nelle mani della polizia. Poi ci siamo seduti dalla “zietta” e ci siamo messi a pensare a come sarebbe potuta finire. Nelle “circostanze normali” si trova a Trieste un’abitazione. Almeno per un paio di giorni avremmo potuto andare da qualche attivista e in questo modo avremmo risolto almeno per un po’ i problemi. Quindi, diamoci da fare! Difficile che qualcuno avrebbe potuto accoglierci sotto il suo tetto. Tutti erano pronti a dare una mano finanziariamente ma difficilmente mettevano a disposizione un’abitazione. Mentre eravamo seduti e pensavamo, Polonca arrivò improvvisamente dalla “zietta”.
“Che diavolo fate qui, siete seduti e discutete e intorno alla casa avete la polizia!”
“Impossibile”, dico, “se controllo sempre e non vedo nessuno. A parte questo, abbiamo le pistole”.
“Qui davanti alla porta ho visto due questurini”, dice Polonca. Abbiamo mandato il piccolo Janko a guardare. È ritornato ed ha detto che non c’è nulla di cui preoccuparsi. A questo punto Polonca ha iniziato a raccontare la storia.
“Da qualunque parte si vada è tutta una caccia all’uomo. Andavo per strada e tutto d’un tratto ho visto due questurini dietro di me. Ho accelerato e loro dietro, corro e loro corrono anche, finalmente sono riuscita a mescolarmi tra la gente in piazza Unità e nel Corso e li ho seminati. Visto che avevo paura che mi avessero seguito fino all’appartamento, non volevo andare a casa. Per sviarli sono andata da Žic. Mi aprono la porta e sull’uscio appare un questurino. “Cosa volete?”, chiede. La moglie di Žic mi ha subito riconosciuta, mi ha dato un’occhiata e ha detto “Mio marito non ha ancora riparato il vostro orologio, non ha avuto il tempo. Tra qualche giorno l’orologio sarà pronto, quindi venite a vedere più tardi”. Žic riparava gli orologi in modo da giustificare le numerose visite che riceveva. Polonca ha così potuto liberarsi dal questurino ed ha potuto venire ad avvertirci.
Poco dopo si è aperta la porta ed è entrata la staffetta Anica. Eravamo felici del suo arrivo. Aveva i capelli pettinati diversamente dal solito le sopracciglia truccate, le guance imbellettate, le labbra dipinte e l’abbiamo riconosciuta a malapena. Ci ha raccontato:
“Ho avuto fortuna. Sono venuta col treno e mi sono avviata verso l’appartamento di Žic. Quando mi è corsa incontro la figlia dei Babi? mi ha presa per la mano dicendomi di andare da loro. Sentivo che era successo qualcosa di importante ed ho seguito la bambina. La piccola mi ha detto che Marta è stata arrestata, che la polizia è da Žic e che dovevo venire in fretta da voi. Poiché era probabile che trovassero la mia foto in casa di Marta, mi sono adeguatamente trasformata in modo da diventare una vera triestina”.
Adesso naturalmente ci domandavamo dove saremmo andati. Eravamo tutti stranieri a Trieste e in più tutti di colpo senza casa e praticamente senza soldi. Abbiamo fatto così: io sono andato da Rasto, che conosceva la città meglio di me e si sarebbe occupato di me ancora per qualche giorno. Polonca è andata dal fratello il quale non si interessava della nostra attività ed era il tipico esempio di speculatore. Gli altri tre sono stati accolti da un onesto piccolo contadino a Rozzol che come primo aiuto li ha fatti uscire da questo impiccio. Io invece sono andato in giro per la città. Tre giorni ho abitato presso una slovena in via Buonarroti. Rasto mi ha presentato come suo cugino, commerciante di Lubiana. Inventavo menzogne senza ritegno su come fosse la situazione a Lubiana, della quale si interessavano molto sia la donna sia il marito, il tipico calabrese che non conosceva neanche una parola di sloveno.
Dopo tre giorni sono andato via poiché avevo capito che non potevo rimanere più a lungo. Riuscii ad avere notizie di Marta e seppi che non aveva ancora detto niente. Con Rasto cercavamo una casa in città. Siamo andati in via Milano nel bar “Da Paola”, per parlare con la proprietaria che era una nostra brava attivista. Ci ha accolti impaurita e ci ha detto: “Per l’amor di Dio, scappate, la polizia è stata qui per tutto il mattino, sono andati via solo un paio di minuti fa. Mi hanno perquisito tutta l’osteria”.
Alla fine ho trovato rifugio dalla cugina di Olga la quale aveva un’abitazione nella parte alta di Scala Santa. Lì ho abitato tre giorni e ambedue i coniugi, il marito era un ferroviere italiano, per tre giorni non hanno chiuso occhio. Ho visto che era impossibile restare più a lungo da loro. Mi hanno assicurato che mi avrebbero accolto volentieri se fossi tornato, ma non potevo fermarmi di più lì perché non ce la facevano a restare sempre sul chi vive. A quel punto non potevo fare altro che tornare a casa mia. Ero convinto che se Marta e Žic non avevano parlato fino a quel momento, non avrebbero parlato neanche dopo. E non mi sbagliavo.
Poco dopo fu arrestata anche la staffetta Mariuccia. In carcere si è comportata male, senza che le facessero pressioni ha detto tutto quello che sapeva; fortunatamente dopo i nostro arrivo a Trieste non ho avuto più contatti con lei perché non ne avevo avuto bisogno. Questo fatto mi ha salvato la vita. Addosso a lei la questura aveva trovato della posta nella quale il segretario del comitato cittadino Boro convocava ad un incontro urgente me in qualità di commissario politico della città e Matevž in qualità di membro del comitato provinciale dell’OF per il litorale sloveno. Mariuccia, che aveva contatti con Matevž e Boro, ha detto dove si trovavano le javke , ha detto tutto ciò che sapeva e in conseguenza è crollata tutta la rete di staffette, il segretario del comitato cittadino Boro è finito in prigione e nelle loro mani è caduto anche Matevž.
Ci siamo resi conto che si stava svolgendo un tradimento largamente organizzato. Per questo facevamo attenzione a non far conoscere i recapiti delle nostre javke e per questo la questura non poteva raggiungerci. Boro è stato catturato nel bunker di Servola Il bunker era sicurissimo, costruito con delle porte speciali che non era possibile notare nel muro, ma dopo il tradimento è stato facile trovare dentro Boro. Tutta l’azione l’ha svolta il capo della polizia politica Collotti che guidava personalmente gli interrogatori e le torture. Questo boia delle prigioni triestine, così come le torture fasciste, era ben conosciuto dai triestini e di rado gli arrestati uscivano dall’interrogatorio e dalle carceri senza gravi conseguenze per tutta la vita.
Nonostante nel carcere vigesse il massimo controllo, sono riuscito ad avere un contatto con Boro. Mi ha comunicato che mentre lo trasportavano in cella dopo l’interrogatorio nel quale era stato torturato a morte, nel corridoio c’era Mariuccia, circondata dai questurini, che rideva. Collotti gliel’ha indicata dicendo: finora è servita a voi, ora lavora per noi. Abbiamo avuto notizie di lui e di Matevž, rinchiusi nel bunker sotterraneo della Gestapo, ancora per un mese e qualche giorno; abbiamo saputo dell’eroismo con cui sopportavano gli interrogatori. I tedeschi si meravigliavano dell’eroica resistenza di Anton Veluš?ek Matevž. Dopo questo non abbiamo avuto più notizie di loro e ancora oggi non sappiamo dove sono stati uccisi; probabilmente sono scomparsi nel crematorio di Servola (cioè la Risiera, n.d.r.).
Polonca è stata catturata nello stesso tempo. Sono state catturate anche altre giovani attiviste: Lu?ka, Cvetka e molte altre, staffette e fidati terenci; la nostra organizzazione militare è però rimasta per lo più intatta anche se abbiamo perso Žic. Anche Valentin ha dovuto entrare in clandestinità ed il comando del rione centro si è disperso.

A Trieste III

Durante l’intero mese di novembre tornavo al mio appartamento con molta cautela. Camminavo sempre per la strada con un mantello, le mani in tasca e una pistola in mano. Abbiamo scoperto che la questura aveva rilasciato Mariuccia e che delle persone l’avevano vista in strada. C’era il rischio che potesse incontrare in strada qualcuno che conosceva e tradirlo alla polizia. Di arrivare vivi nelle mani della polizia non avevamo alcune intenzione né io né Greif, e tantomeno Boris, l’allegro telegrafista che da sempre desiderava andare via dalla sua “scatola” per raggiungere le brigate d’assalto.
Una sera sono rincasato a San Giacomo. Nell’appartamento c’erano Olga e la moglie di Žic. Mi hanno detto con faccia seria che avevano deportato Marta in Germania. Mi è dispiaciuto per la fida staffetta. In quel momento Marta è entrata di corsa dalla porta e mi ha buttato le braccia al collo come se fosse stata la mia sposa. Non sapeva cosa fare per la gioia. Quando si è calmata in modo da poterci dire cos’era successo in carcere e come era riuscita a scappare, ha raccontato la sua storia.
“Leon ha mandato la questura da Žic”, ha detto, “già l’ultima volta avevo detto che il viavai da Žic non passava inosservato. Sfortuna ha voluto che la questura sia arrivata proprio la notte che volevamo trasferirci. Così già al mattino ci siamo trovati improvvisamente nelle loro mani. Il bunker da Žic era sicuro e non hanno trovato né armi né documenti, perché Žic subito dopo l’avvertimento aveva nascosto tutto. Hanno cercato e cercato e non avendo trovato niente, come d’abitudine hanno organizzato un’imboscata nell’appartamento per prendere i clandestini che sarebbero venuti da Žic; all’alba mi hanno fatto accompagnare in galera da un questurino. Avrei potuto scappare, se avessi voluto, ma in questo caso avrei messo in pericolo Žic, che diceva che ero la cugina di sua moglie. Con la mia fuga avrei gettato dei sospetti su Žic, cosa che non potevo fare. Io sono soltanto una staffetta, Žic invece ha una funzione importante, perciò mi sembrava necessario che lui si salvasse. Sono andata serenamente in carcere. Pensavo che Žic sarebbe riuscito a liberarsi dai questurini perché non avrebbero trovato niente da lui, così avrebbe potuto lavorare avanti. Per sfortuna più tardi, durante l’arresto di Polonca hanno trovato un documento con i nomi vero e di battaglia di Žic e lo hanno trattenuto in carcere. Sicuramente verrà internato. Questo documento l’ha rovinato, diversamente lo avrebbero rilasciato prima di me. Addosso a me non hanno trovato nulla, mi sono giustificata dicendo che ero venuta a Trieste a trovare dei parenti e che intendevo andarmene in un paio di giorni. Naturalmente non mi hanno creduto.
Le carceri dei Gesuiti sono terribili. Le suore non hanno ritegno e non sono per niente migliori dei fascisti. Un esempio: quando i fascisti volevano portare una terenka dal Carso in una stanza per violentarla. Ha gridato chiamando aiuto ed è arrivata una suora che le ha detto: puttana partigiana, vai a letto con i partigiani e non vuoi farlo coi fascisti?
Mi interrogò Collotti in persona. Sedeva calmo e indifferente, fumava una sigaretta dietro l’altra, rideva e mi beffeggiava: “bene signorina (in italiano nel testo, n.d.r.) ci dica qualcosa dei partigiani e del loro lavoro a Trieste”. Gli ho detto che non sapevo niente. “Bene, però lei è di Šempas, lì ci sono i partigiani, cosa c’è di nuovo lì?” e io gli ho detto di andare a Šempas e guardare di persona quello che c’è di nuovo. Si è divertito ancora di più e disse “anche ci andrei a Šempas, solo che se ci andassi, non tornerei più indietro. Le dò cinque minuti di tempo per pensare e poi troveremo i modi per far tornare la memoria e ci metteremo d’accordo in qualche altro modo”. È andato alla finestra e per cinque minuti ha soffiato nuvole di fumo nell’aria fischiettando. Poi ha guardato l’orologio, ha chiamato una guardia e siamo andati in cantina.
Quello che mi hanno fatto in cantina se lo poteva inventare solo un fascista. Mi hanno spogliato completamente e mi hanno legato su una stretta tavola. In questo momento mi sono accorta di essere sulla cosiddetta sedia elettrica, una delle più terribili torture dell’interrogatorio. Collotti ha detto: “parlate, se non lo fate adesso lo farete dopo, volente o nolente”. Ha soffiato fuori altro fumo e fischiettato di nuovo la canzoncina. “Non ho nulla da dire”, ho detto, “quello che sapevo ve l’ho già detto e non voglio mentire, non avrebbe senso”. “Bene, iniziamo”, ha detto. Il questurino che gli stava accanto ha collegato l’apparecchio elettrico ed ha iniziato con la tortura. Ha preso in mano il contatto con il quale mi provocava dolori tali da farmi urlare come un animale ferito. Nel mezzo della peggiore tortura, quando ero già quasi tramortita, è suonata la sirena dell’allarme antiaereo. Visto che durante gli allarmi aerei l’elettricità veniva sospesa, l’apparecchio è stato spento ed hanno dovuto terminare l’interrogatorio. Mi hanno slegato e mi hanno buttato di nuovo nella cella in cantina nello stesso edificio dove imprigionavano anche i carcerati. In questo modo non mi hanno più interrogata.
Mi hanno incarcerata con Lu?ka. Lei è stata di nuovo torturata fino allo svenimento ma non ha detto nulla. Ha detto che forse poteva avere detto qualcosa soltanto quando era quasi svenuta e non era in sé e gridava cose che neppure sapeva quali.
Un’altra compagna che era con me in carcere mi ha detto che hanno anche un altro tipo di tortura e questo è il cosiddetto della “cassetta” che su un’alta e stretta cassa di legno legano una persona con da una parte le gambe e dall’altra parte la testa e le mani in modo che la pancia stia sul punto più alto della cassa. La persona è piegata con la pancia verso l’alto a forma di arco. Con l’aiuto di un apparecchio speciale immettono acqua nella bocca. Lo sfortunato si difende per un po’ bevendo l’acqua. Quando comincia a mancargli il respiro è obbligato a inghiottire avanti l’acqua finché non ne può più. Dopo questo iniziano a picchiarlo con manganelli di gomma sulla pancia tesa. Quindi l’acqua che continua a corrergli sulla faccia gli impedisce di svenire. Così deve sempre sopportare il dolore coscientemente. Questa tortura continua fino a che la vittima non dà un segnale di volere parlare. Se non parla la tortura si ripete due o tre volte. Nessuno esce da questa tortura senza riportare danni permanenti.
Più tardi mi ha interrogata Cerlengo uno dei tre fratelli Cerlengo, fascisti istriani tutti questurini. Diceva: “se mi prendessero i partigiani mi cucirebbero una pantigana viva nella pancia, ma non mi prenderanno mai!” (nonostante questo Cerlengo è stato preso da una nostra ?eta durante la liberazione di Trieste) (la nota in parentesi è di Šumrada, n.d.r.).
“Non ho confessato niente nemmeno a Cerlengo e finalmente mi hanno rilasciata oggi dopo diciannove giorni di carcere. Penso di essere una delle poche persone riuscite ad uscire dalle carceri triestine. Prima di rilasciarmi mi ha di nuovo interrogato Collotti che mi ha detto, salutandomi, che si vede che sono una donna onesta che non ha niente sulla coscienza. Mi ha consigliato di non tornare a Trieste per evitare che mi succeda di nuovo una cosa simile. Questo è tutto”.
Con questo Marta ha finito il suo racconto.
Un paio di giorni prima ad una riunione con Babi? Vlado, Branko e Martin, abbiamo deciso che io sarei andato al comando del IX Korpus per riferire dello stato di cose di Trieste. Visto che Marta doveva necessariamente tornare a casa, dato che la polizia aveva le sue foto ed avrebbero potuto arrestarla di nuovo, molti la conoscevano e la potevano tradire, abbiamo deciso di fare la strada assieme. Siamo passati per Opicina. Nonostante il fatto che fosse appena uscita di prigione, Marta non badò ai pericoli e venne con me. Siamo partiti il giorno dopo e siamo arrivati di notte a Veliki Dol ma non abbiamo potuto andare al paese perché c’erano i tedeschi.
Era una notte di novembre inoltrato. Soffiava la fredda bora, avvolti ciascuno nel proprio cappotto leggero aspettammo la mattina tremando. I tedeschi hanno lasciato il paese verso mattina ma erano dappertutto in Carso. Con difficoltà svicolavamo tra di loro. Quando eravamo a Pliscovica i tedeschi erano a Krajna Vas, quando eravamo a Volcja Glava loro erano a Komen, quando eravamo a Sveto erano a Škrabinj. Comunque riuscimmo in qualche modo a cavarcela ed uscirne. Fortunosamente siamo arrivati a Šempas passando per la martoriata valle del Vipacco.
Ero molto più tranquillo nei confronti dei tedeschi. Ero vestito in borghese e non avevo più tanto timore di loro. Avevo documenti della Croce Rossa che dicevano che ero un prigioniero di guerra jugoslavo che rientrava dalla prigionia in Italia. Quindi ho dormito tranquillamente a Šempas. Nella casa dove ho dormito, la mattina dopo sono arrivati dei tedeschi che hanno comprato del latte e rubato del vino, ma non sono saliti al primo piano.
Dopo un paio di giorni ritornavo presso il IX Korpus a Trieste. A quel tempo, Ajdovš?ina e Vipava erano state liberate e quindi durante il percorso ho fatto visita a vecchie conoscenze del Comando della XXX Divisione. Lì ho trovato il tenente Jankovi?, capo del dipartimento operativo, il maggiore ?an?i, il maggiore Branko ed altri. Abbiamo discusso della situazione a Trieste. Qualcuno ha detto che al Dipartimento operativo si trovava una terenka di Trieste inseguita dalla questura.
La cosa mi sembrò sospetta ed ho subito pensato a Mariuccia. Poteva essere caduta tanto in basso da cercare di infiltrarsi persino nelle nostre file per fare la spia. Volevo vedere chi era. Sono andato con il tenente Jankovi? al suo dipartimento e lì ho trovato proprio Mariuccia che stava amichevolmente parlando con un partigiano che conosceva l’italiano. Sapevo che non poteva essere a conoscenza del momento della mia partenza da Trieste. Ho cominciato a domandarle della situazione a Trieste. Sosteneva di non sapere nulla. Mi ha domandato quando sono partito da Trieste e le ho detto che ero andato via un mese prima. Poi le ho domandato notizie di Boro e Matevž. Mi ha detto “sono a Trieste ma non so cosa facciano perché non li vedo già da molto tempo. La polizia mi dava la caccia e quindi sono scappata da Trieste”. Ho capito che stava mentendo ed era pronta a tradire di nuovo. Quindi l’ho fatta arrestare subito e l’ho fatta scortare fino al Comando del IX Korpus.
Dopo un paio di giorni sono tornato a Trieste.

A Trieste IV

Il lavoro continuava. Al posto di Boro, Matevž, Marjana, Bara, dell’onesto Emilio che non sapeva tacere del suo lavoro, ma che in galera, neanche dopo essere stato picchiato a sangue parlò, al posto della vivace Polonca a cui furono spezzati i denti in carcere, al posto di tutti questi, ogni giorno si univano nuove persone alle nostre file. Tutti gli arresti e le detenzioni non riuscirono a fermare il nostro movimento. I nostri magazzini si riempivano, i gruppi partigiani attaccavano i tedeschi ed i fascisti anche durante il giorno nel centro di Trieste, infatti in pieno giorno alla trattoria “Alla Pace” furono abbattute anche delle forze fasciste , la guardia civica veniva disarmata e i traditori venivano puniti. A lungo il traditore Leon ha goduto dei propri misfatti, ma il gruppo d’assalto di Milan di Barcola lo ha raggiunto e giustiziato. Dopo questo anche Milan è stato ucciso, forse perché qualcuno l’ha tradito. Durante la fuga è stato ucciso da un colpo della questura .
Anche il bunkeraš Jaka è morto durante un’imboscata tesagli nel suo appartamento. Non ho più saputo niente di lui . Il fedele corriere Triglav è caduto nelle mani dei cetnici ed è morto internato a Buchenwald, il nuovo corriere Joško che lo aveva sostituito, dopo un duro pestaggio è stato internato in un campo di concentramento in Italia da dove è scappato il giorno del suo arrivo ed ha ripreso immediatamente la sua attività.
Al posto delle staffette arrestate o compromesse altre subentravano e continuavano il lavoro. Cambiavamo continuamente i documenti e le identità, ci aiutavamo in tutti i modi, combattevamo la Gestapo e distruggemmo la loro rete provocatoria organizzata con cura. In città la tensione era altissima, i tedeschi non lasciavano mai disarmati abitazioni e caserme di notte e nemmeno di giorno si arrischiavano ad andare senza armi nella periferia. Il fronte si avvicinava, erano cadute Sarajevo, Knin, Oto?ac, Sušak. Tutto il giorno lo passavamo presso il compagno che custodiva l’apparecchio radio ed ascoltavamo le notizie rafforzavamo l’organizzazione e coordinavamo i nuovi compagni nelle varie unità di guerriglia. Sapevamo che le nostre unità nel momento dell’insurrezione sarebbero rimaste isolate le une dalle altre e abbandonate a se stesse. Per questo cercavamo di sistemare nei posti di maggiore responsabilità i nostri elementi migliori.
Erano già iniziati i combattimenti a Sušak e a Fiume quando il Gauleiter Rainer parlava agli ufficiali tedeschi nel giorno del genetliaco di Hitler nell’ultima celebrazione a Miramare (20 aprile, n.d.r.): “Restate fedeli a Hitler fino al giorno della vittoria. Il Führer ci guida, il Führer vincerà!”. Tuttavia questa era ormai la fine.
Abbiamo ricevuto un dispaccio nel quale si diceva: “siate pronti, le nostre truppe hanno già occupato Šempeter e Ilirska Bistrica”.
Dopo questo è giunto un altro dispaccio: “non cominciate troppo presto l’insurrezione aspettate nostri ordini”.
Dopo questo non sono arrivati altri dispacci! Sabato 28 aprile 1945, di sera, eravamo a San Giovanni. Per la prima volta ero alla trattoria Suban, anche se molti dei nostri compagni in clandestinità la usavano come punto di ritrovo. Ricordo che abbiamo mangiato dell’insalata, però non ricordo cosa c’era vicino. In quel momento sono state sparate le prime salve di cannone dalle batterie marine di Muggia e Cattinara ed Opicina. Ci siamo alzati di scatto, i piatti sono caduti per terra e noi eravamo tutti eccitati.
Le nostre truppe stanno arrivando, se i tedeschi ci bombardavano con i cannoni da Trieste voleva dire che i nostri si stavano avvicinando!
La stessa notte sono andato da Martin Greif che nel frattempo aveva costituito il comando della città; la mattina seguente già iniziavano i combattimenti. Nella zona della Maddalena c’erano già i primi partigiani, naturalmente impacciati, con una grande stella rossa sulla bustina, la maggior parte di loro aveva lunghi fucili italiani presi dai nostri depositi. Un gruppo di tre ha disarmato il posto di guardia della guardia civica vicino a Muggia, ha confiscato parecchi mitragliatori e un cannone anticarro. Štoka da solo in mezzo alla strada ha disarmato un maggiore tedesco e diceva che non ha mai visto una faccia più stupida di quella che ha fatto il tedesco quando gli ha messo la pistola sotto il naso.
Tuttavia non avevamo più collegamenti con il comando del IX Korpus. Non era ancora giunto l’ordine telegrafico decisivo per l’insurrezione. Eravamo lasciati a noi stessi e dovevamo decidere dal soli.
Lunedì mattina a San Giacomo è iniziata l’insurrezione operaia. Una massa di persone si era riversata nelle strade e in mezzo a loro svicolavano le autoblindo dei tedeschi. Le guidavano i tedeschi ma all’interno c’erano i questurini con le mostrine tricolori sulle maniche sulle quali c’era la scritta CLN (Comitato libero nazionale- così nel testo, n.d.r.). Le stesse persone che fino a pochi giorni prima avevano servito l’occupatore e il fascismo e che avevano impiccato negli ultimi giorni di aprile quattro ostaggi accusandoli di avere bruciato il garage di via D’Azeglio volevano ora farsi passare come monarchici per prendere il potere.
Ero preoccupato che la situazione non si capovolgesse. Ma il proletariato triestino è stato in grado di gestire la situazione. I lavoratori si impossessavano delle armi del CLN, si armavano e componevano le compagnie, invadevano le caserme e l’ospedale militare in via dell’Istria, e su questo non innalzarono la bandiera italiana col simbolo di casa Savoia ma una bandiera rossa enorme che arrivava fino a terra.
Nel corso di un attacco è stata disarmata con i soli fucili una grossa autoblindo tedesca con otto mitragliatrici, in breve il popolo ha deciso autonomamente di combattere per prendere il potere. Dappertutto era così. Non soltanto a San Giacomo dove l’insurrezione è stata spontanea, ma anche a San Giovanni già in mattinata fu occupata l’Università, disarmato un presidio tedesco ed iniziata la calata verso il centro città, circondati i tedeschi nel palazzo di giustizia e nella fortezza di San Giusto e negli altri edifici. I tedeschi erano arroccati nelle caserme di Rozzol e nella stazione radio.
Alle 4 del pomeriggio è giunta la notizia che Biani, il comandante in capo, cioè San Giovanni-centro , ha occupato il palazzo del Municipio il palazzo comunale sulla piazza principale. Venti volontari si sono barricati nel palazzo della criminale questura triestina. Aspettavamo. Non arrivavano notizie da fuori, non sapevamo cosa succedeva a Basovizza, Opicina e Barcola. Il collegamento con la città non era possibile. Il IX Korpus non comunicava nulla ma radio Londra trasmetteva gli ordini speciali del maresciallo Tito:
“L’ultimo giorno di aprile verso sera le truppe jugoslave sono entrate a Trieste dove sono in corso combattimenti nelle strade”.
Quindi le nostre truppe sono a Trieste e non soltanto le truppe del Comando città ma anche i regolari dell’esercito jugoslavo. E davvero c’erano: allora erano già ad Opicina, Barcola e San Giovanni. Il comando della città è stato trasferito a Ruzel . Sapevamo di avere il controllo della grande parte della città, che sono state disarmate tutte le organizzazioni collaborazioniste triestine e più di 2000 soldati tedeschi. Aspettavamo soltanto il comunicato dall’uno o dall’altro settore, che le nostre truppe si erano congiunte con i combattenti della IV Armata che spingeva da ovest verso la città.
Non dimenticherò mai quando ho sentito la mattina presto in via D’Angeli gridare: “Stoj, stoj!”. Ho guardato l’orologio, erano esattamente le 4 e mezzo di mattina del 1° maggio 1945. Ho aperto la finestra e visto le scure sagome dei soldati, anche se al primo momento non sono riuscito a riconoscerle. Una donna ha urlato dalla finestra: “chi siete compagni, da dove venite?”.
Hanno risposto:
“Partigiani!”.
Non sapevo cosa fare per la gioia ed ho gridato:
“Compagno, avvicinati, chi sei?”.
Da lontano mi ha gridato:
“Siamo i combattenti del battaglione d’assalto della XXX Divisione”.
Quando mi fu vicino mi riconobbe, un tempo era stato combattente della brigata Gradnik.
“Bene, compagno”, disse, “abbiamo il compito di unirci a voi. Date la notizia che siamo giunti in città dalla vostra postazione radio. Non posso fermarmi più a lungo, devo proseguire. I tedeschi ci sparano dalle caserme”.
Alla donna che gli aveva chiesto nuovamente chi e quanti fossero, rispose: “Siamo i combattenti della XXX Divisione, dietro di noi stanno arrivando il IX Korpus e la IV Armata jugoslava, dietro di noi c’è la nuova Jugoslavia”.

Vinko Šumrada – Radoš    

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