ANCORA POLEMICHE SUL NUMERO DEGLI “INFOIBATI”: IL LAPIDARIO DI GORIZIA

ANCORA SUI NUMERI DEGLI “INFOIBATI”.

“Sono 17 i deportati in Jugoslavia sopravvissuti”, titola il Piccolo, edizione di Gorizia, del 10/7/14, il che può indurre il lettore che non andrà ad approfondire l’articolo, a ritenere che delle migliaia di militari italiani internati in Jugoslavia alla fine del secondo conflitto mondiale solo 17 ne tornarono indietro.

In realtà i 17 sopravvissuti sono una parte del contingente di 28 finanzieri arrestati a Gorizia nel maggio 1945, e ciò viene chiarito nell’articolo, ma quello che il Piccolo non dice è che non furono gli unici sopravvissuti all’internamento nei campi jugoslavi. È vero che non si hanno cifre precise, ma se consideriamo che i ricercatori parlano di 6.000 internati (nella maggior parte militari, gli altri presunti collaborazionisti o criminali di guerra) e che dalle province di Trieste e Gorizia sparirono all’incirca un migliaio di persone (numero che comprende anche coloro che furono vittime di vendette personali, per i quali non si può attribuire alcuna responsabilità al governo jugoslavo), questo dato avrebbe dovuto essere riportato, ancorché col beneficio d’inventario, nell’articolo.

Ma tant’è. Il problema è che ciclicamente ritorna a galla la polemica sul numero degli “infoibati”, stavolta in riferimento ai deportati da Gorizia, in quanto, a seguito della pubblicazione del libro “Dal primo colpo all’ultima frontiera. La Guardia di finanza a Gorizia e provincia. Una storia lunga un secolo” di Federico Sancimino e Michele Di Bartolomeo (LEG 2014), viene reso noto che 17 dei 28 finanzieri indicati come “scomparsi” sul lapidario di Gorizia, sarebbero invece rientrati dalla prigionia in Jugoslavia.

Emblematica è la vicenda di questo monumento, unico nel suo genere. In esso sono stati inseriti 665 nomi di goriziani che sarebbero stati arrestati dagli Jugoslavi alla fine del conflitto, e scomparsi (“infoibati”, secondo la vulgata corrente o, come scrive il dottore in biologia Giorgio Rustia di Muggia, votatosi alla mistificazione storica, “massacrati dalle bande balcanico comuniste”). Negli anni ’90 l’allora vicepresidente dell’Anpi della provincia di Gorizia, Giuseppe Lorenzoni, prese in mano l’elenco e dopo un’accurata ricerca (pubblicata nel 1995) acclarò che 91 dei nomi erano “del tutto estranei alla circostanza” (caduti in guerra, partigiani, sopravvissuti…); e solo 314 erano residenti nella provincia di Gorizia. Ma già nel 1991 era stata pubblicata la foto di uno dei presunti “infoibati”, Ugo Scarpin, che indicava il proprio nominativo sul lapidario: in seguito a ciò, qualche tempo dopo il suo nominativo è stato tolto.

Lo pseudo storico pordenonese Marco Pirina, passato alla storia per la sua capacità di moltiplicare il numero degli “infoibati” (aggiungendo alle vittime reali anche partigiani uccisi dai nazifascisti, militari caduti in combattimento anche da tutt’altra parte e deportati rientrati dalla prigionia) fa un elenco di 945 scomparsi da Gorizia. Dato che la sua percentuale di errore sui 1.458 “infoibati” attribuiti a Trieste è del 64%, probabilmente non vale neppure la pena di soffermarsi sul suo elenco.

Non dovrebbe peraltro essere difficile “quantificare” il numero degli scomparsi da Gorizia nel maggio ’45: il problema piuttosto sta nella confusione che viene fatta tra “provincia” di Gorizia e Gorizia città. Perché la provincia di Gorizia nel 1945 comprendeva un’ampia superficie di territorio ora facente parte della Slovenia, come la zona di Tolmino o la Selva di Tarnova, dove i combattimenti furono accaniti e continui e causarono moltissimi morti, e ad esempio i militari del Battaglione Mussolini, o quelli della Decima Mas, morti in combattimento o dopo essere stati fatti prigionieri, possono essere inseriti nel numero degli “infoibati” di Gorizia?

Volendo limitare l’analisi alla città di Gorizia ed alle altre cittadine della provincia ora italiane, abbiamo a disposizione gli elenchi pubblicati dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione nel 1986 (definito “fonte negazionista e giustificazionista” dall’ineffabile dottor Rustia), che segnalano 332 nominativi a Gorizia (di cui 182 civili), su 1.918 scomparsi a causa del conflitto.

Invece possiamo prendere in esame gli atti di un procedimento penale istruito dal Procuratore militare Sergio Dini di Padova, dove troviamo un “Elenco deportati” di 508 nomi, che presumiamo riprenda i nomi degli elenchi di denuncia degli scomparsi trasmessi all’ufficio anagrafico del Comune di Gorizia, il quale avrebbe risposto in data 21/3/02. Diciamo subito che, inspiegabilmente, in questo elenco non sono compresi nominativi che iniziano con le lettere dalla R alla Z (tranne 3 con la R e 1 con la V), quindi si tratta in ogni caso di un documento incompleto. Ma di questi 508 nomi, a fronte di 228 dichiarazioni di morte presunta indicativamente tra maggio 45 e febbraio 46, abbiamo 29 persone che sarebbero morte per fatti di guerra prima dell’arrivo dell’Esercito jugoslavo, 11 morti anche diversi anni dopo (a Gorizia) e 13 cancellati dall’anagrafe perché emigrati in altre città dopo l’estate del 1945. Se l’inghippo sta nel fatto che a volte i parenti denunciavano come “deportati” dagli Jugoslavi anche parenti dei quali non avevano nessuna notizia, bisognerebbe in ogni caso stigmatizzare che tali elenchi avrebbero potuto (e dovuto) essere aggiornati un po’ prima del 2002.

La maggior parte dei nominativi però sono indicati come “irreperibili” all’anagrafe, per cui si può ritenere possa trattarsi di militari che non avevano posto la residenza in città. In tal caso è più difficile riuscire a determinare se sono deceduti in prigionia o sono rientrati, anche perché all’epoca i rilasciati, se destinati ad altre regioni, venivano direttamente inviati dalla Jugoslavia ai porti italiani (soprattutto Ancona), e rientravano al proprio luogo di residenza.

Infine un cenno a quell’elenco redatto dalla studiosa slovena Nataša Nemec, che era stato reso noto dal Prefetto di Gorizia nel 2006 e presentato trionfalmente sulla stampa italiana come il definitivo elenco dei “deportati” da Gorizia, che comprendendo 1.048 nomi era stato anche indicato come la “prova” che la tragedia era stata ancora superiore ai 665 nomi indicati sul lapidario.

In realtà, come ha spiegato la storica dopo la pubblicazione della lista, non si tratta di un elenco definitivo, ma di un elenco ancora in fase di studio, da lei fornito come appunto al Ministero degli affari esteri e trasmesso alle autorità italiane che lo resero inopinatamente pubblico.

Ad ogni buon conto, ciò che la stampa non considerò all’epoca (e tuttora molti di coloro che si occupano di queste cose continuano a non tenerne conto, nonostante le precisazioni della professoressa Nemec) è che in questo elenco di 1.048 persone sono contenuti anche i nomi di 110 rientrati, di 149 persone morte prima dell’arrivo dell’Esercito jugoslavo e di 38 arrestati a Monfalcone. Che vi sono 34 nomi di militari internati (alcuni deceduti, altri non si sa) a Borovnica, ma provenienti anche da altre zone; e che l’elenco si conclude con una lista di 33 domobranci (collaborazionisti sloveni, non necessariamente goriziani) arrestati; ed infine che per alcuni di questi le note sono contraddittorie (vengono segnalati contemporaneamente come morti in una località e internati in un altro campo), a riprova che l’insieme non è un documento definitivo ma solo una serie di appunti di studio.

Si diceva prima che non è facile determinare la sorte dei militari arrestati che non avevano la residenza a Gorizia: gli storici però potrebbero effettuare un controllo presso i comuni di nascita o presso l’ufficio storico dell’Esercito, sarebbe un lavoro lungo ma non impossibile, che varrebbe la pena di fare anche per non dover più leggere interventi come quello del sunnominato dottor Rustia, il quale ritiene che, in base ad una sua personale (e fallace) interpretazione della “lista Nemec”, nonché dei risultati dell’inchiesta del dottor Dini, si dovrebbe “inserire nel monumento Lapidario il centinaio abbondante di nomi di trucidati ora mancanti” (lettera pubblicata sul “Piccolo”, edizione di Trieste, il 12/7/14).

Claudia Cernigoi, 25 luglio 2014.

 

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