Recensione sullo spettacolo “Magazzino 18”,
rappresentazione del 22/12/2013 al teatro Sala Umberto di Roma
di Samantha Mengarelli (5 gennaio 2014)
Lo spettacolo non è piaciuto, sotto vari punti di vista: artistico, storico-culturale e morale.
Ha confermato purtroppo in modo ancor più deludente le aspettative, senza dubbio influenzate dalla serie di impressioni ed opinioni maturate nel corso dei mesi scorsi, durante la promozione dello stesso. Promozione durante la quale si sono succedute corrispondenze e brevi confronti con Simone Cristicchi (coautore) ed altri suoi collaboratori, non sempre purtroppo adeguatamente argomentati dai sostenitori dello spettacolo.
Nonostante ciò, ci si è sforzati di assistere alla rappresentazione in modo “imparziale”, immersi nel coinvolgimento della sala e del momento.
Lo spettacolo è risultato noioso, pesante e capzioso. In una scenografia statica che forse non rende il movimento proprio della drammaticità di una migrazione, qual vorrebbe raccontare. Apre e chiude la scena “lo spirito delle masserizie”, che piace evidentemente tanto agli autori, forse per il tocco di esoterismo e di indubbia matrice borghese, di cui viene accentuata una legittima nostalgia dei beni materiali a cui si dà un’anima, che da un lato personalizza con un certo individualismo le perdite, però poi nello spettacolo la tragedia e la sfortuna di chiunque diventa la più grande tragedia di tutti. Una diffusa, abile e pericolosa arte della generalizzazione, che tradisce però il bisogno di obiettività storica, di cui lo spettacolo stesso intende farsi portavoce, come si evince in vari momenti della sua rappresentazione.
I testi dei dialoghi appaiono miseri, tendenti al patetico, inseriti in un monologo in cui il cantautore/attore si destreggia non male, con buona interpretazione dei vari ruoli, ma dimostra più di un’incertezza, specie laddove sembra siano state apportate modifiche, rispetto alle repliche in Istria e a Trieste. Con il tono sarcastico ed il tentativo di sdrammatizzare alcune vicende, il distratto archivista Persichetti dall’accento romano (e non romanesco) non alleggerisce nulla, ma ha l’effetto di rendere forse banali e riduttivi i delicati temi trattati. Non compaiono altri attori sulla scena. Stavolta non sono fisicamente sul palco i bambini che cantano “la buca” (testo violento, evocante le uccisioni nelle foibe, con il colpo in testa) e che accompagnano in coro, con un bastone in mano, “noi siam la classe operaia”, nel racconto della vicenda dei lavoratori Monfalconesi. L’immagine sfocata dei minori che cantano è proiettata su un grande schermo calato sullo sfondo. Sul palco fa ingresso soltanto una bambina, nella rievocazione della tragedia sulla spiaggia di Vergarolla, a seguito dello scoppio di mine lasciate in tempo di guerra (ma da chi? non viene detto). La bambina è tenuta in braccio dal protagonista dopo la morte scenica, a mo’ di pietà religiosa. Il racconto di questa strage di civili nello spettacolo è in fila al racconto delle rappresaglie antifasciste attribuite a mano jugoslava, si richiama la sua natura di attentato per Vergarolla, che si allude di origine partigiana. Nella realtà, non si conoscono i mandanti.
La Jugoslavia di Tito e dei “partigiani con la stella rossa” (così il protagonista li richiama spesso) ne escono demonizzati, non c’è alcun dubbio. Il peggior comunismo della storia appare quello di Tito. E’ dichiarato piuttosto esplicitamente quando si accenna all’uscita della Jugoslavia dal COMINFORM. Vicenda storico-politica complessa su cui lo spettacolo ironizza, semplifica e non argomenta abbastanza.
Tale lettura è dimostrata dal fatto che il protagonista riporta una “testimonianza storica” quale la presunta confessione di un collaboratore di Tito, Milovan Gilas, identificato come il suo braccio destro, che lo accusa di aver dichiaratamente fatto propaganda anti-italiana, ordinando la cacciata dalle terre d’Istria, per il progetto di invasione della grande Jugoslavia. Di qui, le accuse di pulizia etnica addossate ai partigiani di Tito, come gli unici colpevoli degli orrori delle foibe e delle stragi della rappresaglia antifascista, secondo un piano di strategia del terrore, ampiamente richiamato nello spettacolo. Ma quali sono le fonti?
E’ anche per questo, che l’obiettivo dello spettacolo, mascherato da una veste che pretende di essere equilibrata per il solo fatto di introdurre in non più di dieci minuti l’antefatto fascista, citando i campi di concentramento italiani come Rab e richiamando con buonismo le vittime (come la bambina slovena) di tutte le guerre, risulta invece di evidente sapore nazionalista, antipartigiano e anticomunista. Non può pertanto vantare oggettività storica e imparzialità politica, poiché alcune delle parti in causa, ne escono offese e snaturate e questo può ricevere consensi, ma non è intellettualmente onesto.
In questa rappresentazione a Roma, differendo da precedenti, all’antifascismo è fatta qualche concessione in più. Non è stato riproposto il commento di sdegno e di biasimo dato alla voce degli esuli, rivolto all’ex Presidente Sandro Pertini, in occasione del riconoscimento degli onori ai partigiani jugoslavi ed al Presidente e generale Tito. Sono state invece introdotte delle parti di testo, anche a seguito di corrispondenza polemica con membri dell’ANPI e dell’associazione CNJ onlus. Viene citata l’invettiva di Mussolini: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche [” parafrasando e rendendo il concetto di evidente razzismo con l’espressione: “per ogni dente italiano una testa slava” e poi ironizzando sul mito “Italiani Brava gente”, a cui si allude con un connotazione fortunatamente condivisibile. Verso la fine si parla dei “rimasti” in Istria, considerati le vittime per eccellenza sia degli italiani fascisti che degli slavi comunisti titini. Ma, il biasimo più grande viene reso a Tito, estrapolando e interpretando un suo discorso sull’accoglienza e sul rifiuto del riconoscimento della condizione di esuli ai “dirigenti fascisti”, additandolo di paradossale intolleranza, nutrita (e non è vero) verso tutti gli esuli. I “rimasti” in Istria, nello spettacolo appaiono i disadattati nel regime comunista jugoslavo o gli accusati di fascismo; fu proprio così?
E quindi accade che, anche la citazione sopra riportata di Mussolini riguardante gli Slavi, nel corso dello spettacolo sembra far gioco alla legittimazione del giudizio di barbarie e crudeltà delle truppe partigiane titine, che risultano incriminate di tutte le tragedie personali rappresentate, come la storia di Norma stuprata e buttata nelle foibe, la storia del postino, che risale la buca, la storia dell’attentato di Vergarolla, la storia della bambina che muore di freddo nel campo profughi di Patriciano, la storia dei Monfalconesi (lo spettacolo lascia intendere in massa) portati nel campo di prigionia di Goli Otok, le rappresaglie violente antifasciste, la storia dell’esodo della famiglia di Ferdinando Biasol e delle sue “cose” nel Magazzino 18, al Porto Vecchio di Trieste.
Uno degli azzardi più impropri è il paragone tra gli emigranti italiani del dopo guerra e gli esodati istriani, dove viene evidenziata la diversa condizione dei primi motivati secondo gli autori, solo dal sogno “dell’andar a cercare fortuna” e dei secondi, cacciati dalla loro terra dalle politiche di conquista della “Grande Jugoslavia”. Questa approssimazione non rende verità storica e umana né agli uni né agli altri; è infatti nota la disperazione, la povertà di base degli emigranti italiani del dopo guerra, e la realtà delle politiche di economia industriale del Piano Marshall. Così come è noto e documentato che le ondate degli esodi degli Istriani hanno avuto carattere diverso, e contava fascisti militanti, borghesi regnicoli e Italiani meno abbienti, spinti dalla miseria. Lo stesso protagonista dello spettacolo restituisce invece immagini di molti degli esuli che perdono le loro belle case con panorama sulle sponde dell’Adriatico dell’Istria, per migrare in Italia. Forse, i paragoni non sono così semplici… Le condizioni di partenza e le ragioni non sono sempre uguali e tanto meno i risvolti.
L’Istria viene commemorata come terra Italiana da sempre. E quindi trova consensi emotivi tra i molti disinformati (loro malgrado) che ascoltano e rivivono legittimamente vicende proprie o riportate. I vissuti sono preziosi, ma la storia non dovrebbe mentire e dovrebbe interpretarli con un certo distacco per rispettarli.
Lo spettacolo mostra quindi, purtroppo, ignoranza storica e politica, con vari momenti propagandistici.
Come la vicenda dei 2000 Monfalconesi che il protagonista definisce “in controesodo” ridicolizzati sulla scena, col fazzoletto rosso sventolato ironicamente ed il bastone…, perchè partono per la Jugoslavia mossi dall’ideale del socialismo comunista e poi invece vengono spediti a Goli Otok, per l’espulsione del “Tito eretico” dal Cominform: così viene definito dal protagonista interpretato da Cristicchi, in tono ambiguo tra il sarcastico e l’accusatorio.
E che ruolo viene dato ai numeri e alle fonti della storia? nello spettacolo si parla dell’importanza dei dati, ma si citano solo questi numeri: 350.000 esuli, 10 campi profughi, 28 morti a Vergarolla, 2000 Monfalconesi in controesodo, spediti a Goli Otok. Sui dati degli infoibati si ironizza, si sposta il piano del giudizio, evidenziando che gli storici giocano sui numeri, da cinquecento a svariate migliaia, ma che ciò non ha importanza, di fronte alle tragedie umane. Ma non è l’archivista Persichetti al telefono con l’Ufficio esuli del Ministero degli Interni ad affermare che i dati sono importanti? Si fa un uso molto scenico, di questi dati (ammesso che siano esatti), quando servono li diciamo, quando no, meglio tacere. Artisticamente è legittimo, storicamente no.
Perciò il rischio di mistificazione è facile e lo spettacolo non si esime, nella sua promiscuità di piani su cui viene affrontata una vicenda complessa e dibattuta. E così l’esodo degli Istriani è definito in esso come un fenomeno di proporzioni “bibliche”, varie volte, come “uno dei più grandi mai accaduti” e la violenza delle foibe un’atrocità di dimensioni impropriamente esagerate, perché non dimostrate.
L’ultima scena dello spettacolo: una decina di sedie in fila alla ribalta, dove vengono fatti sedere gli spiriti di alcuni personaggi famosi che appaiono anch’essi vittime dell’esodo, come il cantautore Sergio Endrigo, l’attrice Laura Antonelli, Alida Valli, perché ovviamente, qualche nome noto fa comodo spolverarlo per rafforzare il messaggio ed i consensi. Solo che, la pertinenza di tali nomi con la vicenda è quanto meno discutibile. Tali personaggi siedono accanto agli spiriti dei protagonisti delle storie più tragiche raccontate, vissuti per i quali non si ha la percezione di ciò che è “autentico” e di ciò che è romanzato.
Per concludere, lo spettacolo sembra sortire il suo scopo, che appare quello di un’operazione politica ben commercializzata, un’opera su commissione. Ma di chi e perché? Una propaganda demagogica poco intelligente ed alquanto populista, che fa leva sull’ignoranza ma soprattutto spera forse nella pigrizia di un pubblico variegato, anche di intellettuali di parte, che probabilmente non si andrà mai a verificare criticamente la storia rappresentata e qui giudicata, ma comodamente tornerà a casa e soprattutto nelle scuole, a dire ai propri figli che finalmente qualcuno racconta delle verità storiche nascoste dai comunisti per 70 anni. E non funziona così, proprio no.
Ma fortunatamente c’è anche chi, con un po’ più di senso critico, non vorrebbe trovarsi questo “spettacolo dei sentimenti” o delle “emozioni” (definizione dell’autore Cristicchi) come bibliografia o come capitolo dei libri di storia dei nostri figli di oggi e di domani, dove fascisti e antifascisti si minestrano troppo superficialmente, favorendo distorsioni storiche e politiche gravi. Le distorsioni alimentano non verità e conflittualità, e soprattutto non restituiscono di certo giusta commemorazione e rispetto ai vissuti dolorosi di chi non c’è più, o di chi è sopravvissuto ed in una storia più onesta può al limite sperare, per meglio elaborare e trovare un po’ di pace.
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Una lettera aperta all’ANPI per chiedere l’espulsione di Simone Cristicchi
di Marco Barone (6 gennaio 2014)
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«Magazzino 18» ovvero le foibe e l’esodo diventano un musical:
alcune considerazioni sulla storia che Simone Cristicchi ha messo in musica
di Francesco Cecchini (5 gennaio 2014)
«La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza o con altrettanta dolcezza, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe nerovescia un’altra». Così Mao Tse-tung e lo stesso concetto può valere per la lotta partigiana che liberò il confine orientale dal nazi-fascismo. In questo ambito molti italiani scelsero di abbandonare l’Istria e la Dalmazia. Questo esodo è il tema di «Magazzino 18» di Simone Cristicchi, scritto con Jan Barnas, regia di Sergio Calenda.
«1947» di Sergio Endrigo
Da quella volta
non l’ho rivista più,
cosa sarà
della mia città.
Ho visto il mondo
e mi domando se
sarei lo stesso
se fossi ancora là.
Non so perché
stasera penso a te,
strada fiorita
della gioventù.
http://www.youtube.com/watch?v=d1kYu2w8iko&feature=youtube_gdata_player
Endrigo canta la giovinezza e la città – Pola o Pula o Pulji – dove ha trascorso l’adolescenza: lasciata quando i suoi genitori scelsero di venire in Italia. Poi ritrovata perché Sergio Endrigo non ha mai voluto assumere il ruolo del fuggiasco e tagliare i legami con la sua terra. Fu internazionalista, un italiano amico di tutti i popoli, anche degli slavi del sud, oltre il confine.
Endrigo è stato un comunista che con passione ha vissuto, scritto e cantato la vita, l’amore, i conflitti e le contraddizioni del proprio tempo. Significativa del suo impegno è la canzone «La ballata dell’ex».
Eccola.
«Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
La notte solo il vento gli faceva compagnia
Laggiù nella vallata è già pronta l’imboscata
Nell’alba senza sole eccoci qua
Qualcuno il conto oggi pagherà
Andava per i boschi con due mitra e tre bombe a mano
Il mondo è un mondo cane ma stavolta cambierà
Tra poco finiranno i giorni neri di paura
Un mondo tutto nuovo sorgerà
Per tutti l’uguaglianza e la libertà…».
http://www.youtube.com/watch?v=wF6fkLTVubw&feature=youtube_gdata_player
Parlando della canzone Endrigo ha detto: «È nata dalle letture di Calvino, Pratolini, del Cassola di “La ragazza di Bube” ed esprime l’amarezza di quanti avevano creduto nella grande rivoluzione che doveva avvenire nel dopoguerra e che ovviamente non c’è stata». Negli anni Sessanta la canzone venne anche censurata.
Viene cantata, con molto meno bravura, da Simone Cristicchi, in uno spettacolo di questi giorni al quale, sicuramente, Sergio Endrigo (se vivo) non avrebbe partecipato. In «Magazzino 18» Cristicchi e il giornalista Bernas Jan, propongono in musica un luogo comune che in questi anni viene diffuso con impegno, quello di centinaia di migliaia di italiani dell’Istria e Dalmazia che di fronte all’odio etnico-nazionalista del comunista Tito e alla minaccia di finire nelle famigerate foibe diedero vita a un esodo di dimensioni bibliche. Affinché il luogo comune non venga fessurato da dubbi è stata eliminata la lettura di questo brano dell’antifascista sloveno e triestino Boris Pahor.
«Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca, dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere. Gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco».
Il testo di Pahor racconta l’incendio e la distruzione, il 13 luglio 1920, di un importante centro di cultura, vita sociale ed economica della comunità slava di Trieste, il Norodni Dom (Hotel Balkan). L’atto terroristico, opera dei fascisti sotto l’occhio complice delle autorità, fu la più grave e clamorosa di una serie di intimidazioni e violenze.
Rimane – nonostante le proteste di fascisti e di “esuli” – una poesia in sloveno recitata da una bambina che narra una delle tante tragedie del fascismo in quelle terre, il campo di concentramento di Arbe. Un timido accenno a ciò che precedette l’esodo, ma troppo poco per riflettere su quel che accadde in realtà. Arbe fu un vero e proprio lager di sterminio, ma altri campi per slavi vennero allestiti in territorio italiano (Monigo, Gonars, Chiesanuova, Renicci, Visco) e nel suolo slavo con il coinvolgimento di oltre 100.000 persone fra sloveni, croati, montenegrini. Nonostante alcune ottime ricerche – fra le altre «Di là del muro» di Francesca Meneghetti, «I campi del duce» di Spartaco Capogreco, «Un campo di concentramento fascista, Gonars» di Alessandra Kersvan – il tema dei lager per slavi istituiti dal fascismo con la collaborazione delle autorità militari resta da esplorare per intero.
L’esodo di italiani da Istria e Dalmazia è una storia del secondo dopoguerra impossibile da comprendere isolandola, cioè senza prendere in considerazione gli orrori del fascismo e prima la politica imperialista dei governi liberali, la guerra mondiale con i suoi crimini, le stragi di civili e poi la guerra di liberazione in quelle terre.
Una storia complessa che va colta nelle sue contraddizioni e indagata per creare quella coscienza che fa della memoria il luogo di comprensione della realtà e lo strumento per capire il significato di quel tempo storico.
Purtroppo viviamo in tempi di mistificazione diffusa, che va da lavori pseudo storici come gli scritti di Arrigo Petacco, a romanzi come «Foiba Grande» di Sgorlon o al recente «Terra Rossa» di Mario Tonino, a film come «Porzus», alla telenovela «Il cuore nel pozzo». Ora si aggiunge il musical di Cristicchi e Benras che decontestualizza la vicenda dell’esodo. Nessun accenno alle politiche antislave adottate dal regime fascista; nulla circa i crimini commessi dagli occupanti fascisti nei Balcani; nessun riconoscimento alla Resistenza jugoslava, trattata quasi come elemento criminale, che con il suo enorme tributo di sangue fu determinante per la sconfitta del nazifascismo. Una Resistenza cui, dopo l’8 settembre 1943, si affiancarono decine di migliaia di soldati italiani – molti dei quali morirono poi per mano nazista o per il tifo – riscattando il nostro Paese dall’ignominia in cui l’aveva gettato il fascismo.
Dove attualmente vivo – a Montebelluna – il 10 febbraio 2012 l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Comitato provinciale di Treviso) per non dimenticare i giuliani dalmati morti nelle foibe, ha commemorato con il sostegno dell’amministrazione leghista e coinvolgendo le scolaresche, un genocidio, pubblicamente propagandato in manifesti e volantini, ma in realtà mai avvenuto. Relatore Arrigo Petacco, conduttrice Maria Bortoletto, partecipante il sindaco Marzio Favero. Un anno dopo, lo stesso sindaco ha impedito un convegno organizzato dall’Anpi su fascismo, confine orientale e foibe con la partecipazione delle storiche Monica Emmanuelli ed Alessandra Kersevan, mettendo così in pratica un anatema lanciato dagli esuli della Nvgd: «si eviti di invitare tutti coloro che in un modo o nell’altro potrebbero venire meno allo spirito commemorativo espresso da relativa legge dello Stato (no 92/2004) e anzi mostrarsi in palese contrasto con essa attraverso tesi vergognosamente negazioniste ed offensive, come purtroppo troppo spesso è accaduto in passato anche in sedi prestigiose».
Nessuna meraviglia quindi se qualcuno, esule istriano, amministratore comunale o altro pensi di organizzare per la cittadinanza montebellunese, il prossimo 10 febbraio, lo spettacolo «Magazzino 18».
L’istituzione, il 10 febbraio di ogni anno, di una «giornata della memoria dell’esodo dall’Istria, dall’Istria, da Fiume e dalle coste dalmate» – con la legge 92 del 30 marzo 2004, approvata dalla Camera con il voto favorevole del “centro-sinistra” guidato dagli allora Ds (che nel maggio 2003 avevano presentato una proposta di legge in tal senso, firmatari il segretario Piero Fassino, Luciano Violante e il deputato Alessandro Maran eletto nel Friuli-Venezia Giulia) – è un oltraggio alla Resistenza.
Una «memoria condivisa» che in trealtà cancella ogni distinzione storica e politica fra fascismo e antifascismo. La storia non si può eliminare, né strumentalmente riscrivere a colpi di leggi; si può anche rinnegare, certo, ma cambiare no.
Emblematico di quello che avvenne nelle terre poi acquisite dal trattato di Rapallo (quello del novembre 1920) fu a esempio il discorso di Benito Mussolini, tenuto a Pola il 22 settembre 1920 :«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone … i confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
Altrettanto emblematico quanto Italo Sauro (consigliere per le questioni slave presso il governo di Roma) scrisse nel memoriale per il “duce” del 9 dicembre 1939:
«Alienare in tutte le forme gli slavi dai propri terreni e dai paesi dell’interno […] minare la proprietà slava attraverso tutte le operazioni di credito e del fisco […] favorire l’emigrazione di rurali slavi … trasferire continuamente operai e minatori specializzati in centri lontani del Regno e delle colonie. […] Quello che importa… è l’italianizzazione del confine orientale..»
Così – fra il 1920 e il 1939 – centomila sloveni che da secoli vivevano nella zona nordest di quello che era diventato il regno d’Italia (le zone di Trieste, Istria e Dalmazia) vengono definiti allogeni, cioè estranei a quella terra, e deportati in altre zone del regno sabaudo.
Chi volesse seriamente spiegare foibe ed esodo dovrebbe partire dalle complesse questioni legate al “confine orientale”: la responsabilità dell’Italia liberale prima e del regime fascista poi , la feroce oppressione del fascismo, la sanguinaria aggressione nazi-fascista, l’occupazione tedesca e il collaborazionismo italiano che portarono a tremende stragi e poi alla liberazione. Studiosi di storia – fra gli altri Alessandra Kersevan, Claudia Cenigoi, Alessandro Sandi Volk – hanno ampiamente scritto.
Ma per avere una prima idea è sufficiente la sintesi, fornita dallo storico Anfelo Del Boca, del bilancio delle vittime civili in 26 mesi (1941 – 1943) di terrore italo-fascista nella sola “provincia di Lubiana”.
Ostaggi fucilati per rappresaglia: 1.500
Fucilati sul posto durante i rastrellamenti: 2.500
Deceduti per sevizie: 84
Torturati e arsi vivi: 103
Uomini, donne e bambini morti nei campi di concentramento: 7.000
Totale: 11.100
Se si contano i circa 900 partigiani catturati e “passati per le armi” sul posto, nonché le 83 sentenze di morte emesse dal tribunale militare di guerra di Lubiana (che comminò anche 434 ergastoli e 2695 altre pene detentive per un totale di 25.459 anni) le vittime furono più di 12.000.
I villaggi completamente devastati furono 800 e più di 3000 le case saccheggiate e distrutte col fuoco.
Vale la pena dire qualcos’altro sul musical di Cristicchi.
«Quando entri nel magazzino hai la stessa sensazione di quando entri ad Auschwitz, respiri l’aria che si sente alle Fosse Ardeatine».Così Cristicchi in una dichiarazione rilasciata a «Huffington Post»del 19 ottobre 2013. Il magazzino è quello 18 del Punto Franco Vecchio nel Porto di Triste dove sono stipate centinaia di metri cubi di masserizie abbandonate da coloro che se ne andavano da Istria e Dalmazia. Alle Fosse Ardeatine furono massacrati 335 civili e militari italiani; ad Auschwitz, Birkenau, Monowitz e nei sottocampi collegati al complesso Auschwitz furono sterminati certamente un milione e centomila persone, forse un milione e mezzo. Il paragonare quel magazzino 18 di Trieste alle Fosse Ardeatine e ad Auschwitz la dice lunga sulla poca serietà del cantante Simone Cristicchi.«Magazzino 18» è una miscela di demagogia e di sentimentalismo strappalacrime. Cristicchi e il coautore Jonas Bernas non danno al racconto e alle canzoni un fondamento di verità, ma vogliono solo catturare l’attenzione di un vasto pubblico giocando su immagini facili come fossimo a San Remo o in un festival musicale.
Il titolo del libro di Bernas – prefazione di Veltroni e postfazione di Fini – è anche un verso della canzone «Magazzino 18». Eccolo:
«E siamo scesi dalla nave bianca , i bambini, le donne, gli anziani,
ci chiamavano fascisti eravamo solo italiani»
Termina così:
«Quando domani in viaggio arriverai sul mio paese,
carezzami ti prego il campanile, la chiesa, la mia casetta».
http://www.youtube.com/watch?v=oW2IrXGJNyA&feature=youtube_gdata_player
La quintessenza di un cattivo gusto mal cantato e male recitato, dove anche il numero di coloro che abbandonarono quelle terre (350.000 afferma il cantante) è esagerato.
Con le recite alla Sala Umberto di Roma dal 17 al 22 dicembre si è concluso un primo ciclo di rappresentazioni di «Magazzino 18». La critica favorevole non solo di giornali di destra – come «Libero» o«Il Giornale» – fa riflettere sul livello di mistificazione raggiunto che porta alla rimozione della verità storica sul fascismo, sulle sue responsabilità e i suoi crimini. Così il musical di Cristicchi si colloca in un’onda nera che monta. Non è un caso che dove – nella marca trevigiana per esempio – si onorano olocausti immaginari di popolazioni giuliano-dalmate e si silenziano iniziative di controinformazione su queste balle, si svolgano poi indisturbati i raduni nazionali di Casa Pound.
Che fare, a questo punto?
- Praticare un antifascismo militante che tolga spazio a organizzazioni come Casa Pound, Forza Nuova e simili. Il raduno nazionale di Casa Pound avrebbe meritato una mobilitazione nazionale dell’ANPI e non il raduno di un centinaio di persone un mese dopo l’avvenimento.
- Intensificare il lavoro di controinformazione. Si avvicinano le scadenze istituzionali della giornata della memoria, il 27 gennaio, e poi del giorno del ricordo. Nel primo caso si deve informare di tutti i genocidi avvenuti, degli armeni, dei tutsi, ma anche di oltre un milione di comunisti in Indonesia… o ci sono massacri meno importanti? Quanto alla “giornata del ricordo” deve servire a ricordare – oltre alle foibe – anche i crimini nazi-fascisti in Jugoslavia, collegandoli ai massacri italiani in Etiopia e Libia.
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Magazzino 18. Cristicchi e la storia secondo un archivista ‘distratto’
Teatro. Il monologo, con la regia di Antonio Calenda, a rischio di revisionismo
di Stefano Crippa, su Il Manifesto del 27.12.2013 – rubrica “Visioni”
Centinaia di sedie una sopra l’altra, vecchi mobili, camere da letto, oggetti lasciati dagli esuli italiani nel Porto Vecchio di Trieste. Tutti accatastati nel Magazzino 18, anche titolo dello spettacolo di Simone Cristicchi per la regia di Antonio Calenda, che ha debuttato lo scorso ottobre al Politeama di Trieste e sta girando i teatri della penisola. Al centro l’esodo degli italiani dalle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia e il dramma delle foibe, uno spaccato di storia complicato e mai risolto che Cristicchi — memore di sue esperienze passate sul palcoscenico (come Li romani di Russia), riprende in un monologo a metà fra il recitato e la canzone.
Nella messinscena Cristicchi è un archivista romano, inviato al Magazzino 18 dal ministero dell’interno per fare un grande inventario. Andatura dinoccolata, soprabito e valigetta, un guascone che si rifà alla mitologia dell’uomo medio incarnato da Sordi in tanti film: arruffone, egoista, ma che nella finzione passa da un disinteresse totale a una più decisa consapevolezza. Un racconto intervallato da una sorta di compendio veloce dei fatti storici che sconvolsero quelle terre dai primi del Novecento al ’47, cercando di contestualizzarne le vicende. E qui Cristicchi inciampa rovinosamente, mettendo in scena uno spettacolo che si basa quasi esclusivamente sul testo di Ian Bernas Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, e propone un’interpretazione di quegli accadimenti parziale, se non univoca.
Così la storia tutto ingoia e omologa, senza permettere allo spettatore di valutare le ragioni e i comportamenti che sono stati alla base di quegli eventi; avvicinando anzi pericolosamente le due ideologie contrapposte, comunismo e fascismo, per omologarle. E generando confusione nel pubblico: perché non si possono dedicare tre minuti tre di «riassunto» alle terribili sofferenze portate dal fascismo in Slovenia; lo sterminio di oltre 350 mila sloveni, croati, serbi montenegrini, slavi nelle regioni occupate e/o annesse dal 3 aprile 1941 al settembre del 43, le 35 mila vittime uccise da fame e malattie in oltre 60 campi di internamento per civili sparsi dal nord al sud Italia, che sono fondamentale per comprendere la successione degli avvenimenti.
«Non mi interessa la politica — racconta in un’intervista al Piccolo il cantautore — Mi interessano le storie, e mi interessa continuare a sviluppare, sia a teatro che con le mie canzoni un’operazione didattica della memoria». Ma per ricostruire una successione di eventi così complessa — e dichiaratamente con «fini didattici» — serve un lavoro diverso. Non basta limitarsi a costruire canzoni o, peggio, riutilizzare uno struggente pezzo di Sergio Endrigo come 1947, facendolo passare per un’irredentista. Altrimenti — e ci dispiace perché in passato Cristicchi ha dato prova di sensibilità nel parlare di disagio mentale — si presta solo il fianco al revisionismo storico che avvelena il tessuto sociale di questo paese da troppo tempo.
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Simone Cristicchi racconta le foibe e «gli orrori dei comunisti»
di Edoardo Di Gennaro – 18/10/2013 – Povia non bastava?
La notizia è del quotidiano Libero: “Cristicchi racconta le foibe «Ora mi danno del fascista» Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titinie l’esodo degli italiani dalmati. «Sfido l’estrema sinistra: venite a vedermi»”. Il cantautore romano infatti il 22 ottobre presenterà il suo musical “Magazzino 18″ a Trieste al Politeama Rossetti. L’opera è stata scritta assieme a Jan Barnas, autore del libro”Ci chiamavano fascisti, eravano italiani”. Ci si chiede cosa abbia spinto Simone Cristicchi che ricordiamo agli esordi con “Vorrei cantare come Biagio Antonacci” ad affrontare la questione delle foibe della quale lo stresso cantautore dice di esseresene interessato «vagamente» in passato.
Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico? «Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas che poi è di- ventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».
“Magazzino 18″, così si chiama il musical, è il posto in cui si trovano i mobili degli esuli. Cristicchi l’ha visitato e ha detto che gli sembrava di essere a Ellis Island.
«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».
Il cantautore romano poi sostiene di essersi avventurato in quest’impresa perchè quella degli esuli è una storia che merita di essere raccontata
«Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra»
Ed ecco il risultato di un anno di fatiche.
http://www.youtube.com/watch?v=TgBDHYjv5fE
Cristicchi racconta a Simone Palaga di aver ricevuto una marea di critiche «dall’estrema sinistra. Se prima per i temi che trattavo mi consideravano di sinistra a un tratto invece sono diventato fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare le storie. Non mi interessano questi giochi politici Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio». Certo, Cristicchi è libero di occuparsi delle storie che vuole, ma non puo’ dire di non essere interessato ai giochi politici, soprattutto se ha intenzione di banalizzare una questione così delicata con le sue canzonette. La parabola artistica di Cristicchi è molto simile a quella di Povia: entrambi sono arrivati al grande pubblico con innocue canzoni che facevano sì male alla musica, ma che almeno non avevano nessun contenuto sociale e politco. Entrambi ora sono arrivati a trattare temi così delicati utilizzando gli stessi linguaggi e la stessa superficialità delle canzoni con cui sono diventati famosi. In ogni caso, credo che dovremo rassergnarci a questa deriva di Cristicchi, il quale pensa addirittura che il suo spettacolo possa essere istruttivo: «Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?» chiede Palaga, «Certo, è un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia». D’altra parte anche Enzo Biagi ha scritto “La storia d’Italia a fumetti”, perchè Cristicchi non potrebbe scrivere “La storia d’Italia in musical?”. La risposta è semplice: perchè Cristicchi è quello di “Vorrei cantare come Biagio Antonacci”.
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