GLI AFFERMAZIONISTI IN MATERIA DI FOIBE

FOIBE TRA STORIA E PROPAGANDA.

(INTERVENTO DI CLAUDIA CERNIGOI AL CONVEGNO “FOIBE. LA VERITA’ CONTRO IL REVISIONISMO STORICO”, SESTO SAN GIOVANNI, MILANO, 9 FEBBRAIO 2008).

Mentre si svolge questo convegno dovrebbe avere luogo anche una manifestazione di contestazione ad esso, o quantomeno questo è quanto richiede, in una sorta di appello lanciato un paio di mesi fa, Massimiliano Panizzut di Biassono (MI), il quale definisce se stesso: “38 anni, Consigliere Comunale del Libero Comune di Pola-Istria in Esilio”. Panizzut ritiene che un’iniziativa come questa non avrebbe diritto a tenersi perché “il sacrificio di 350.000 istriani, giugliani (sic), dalmati che hanno dovuto abbandonare la propria terra e il martirio di 20.000 di loro morti nelle foibe non basta ancora dopo 60 anni a far capire come sono andate realmente le cose !!!”. È da rilevare che nell’intervento apparso sulla testata “L’Arena di Pola” (organo dell’associazione Libero Comune di Pola in esilio) Panizzut curiosamente non fa alcun numero di infoibati, in compenso scrive che i “soliti noti (leggasi Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan, Giacomo Scotti, Margherita Hack, partigiani ed organizzazioni sinistrorse varie)” intendono “propinare agli ignari italiani le loro balzane tesi sulla storia degli Esuli”, e definisce “negazionista” questo convegno  (su “L’Arena di Pola” n. 12, 30/12/07).

Ci troviamo qui di fronte all’ennesimo attacco nei confronti di coloro che per avere cercato, trovato ed analizzato quanti più documenti possibile per poter fare un’analisi seria e critica degli avvenimenti storici noti come “questione delle foibe e dell’esodo istriano”, invece di vedere riconosciuto questo loro impegno si trovano ad essere accusati di “negazionismo”, motivo per il quale si è tentato e si tenta tuttora di impedire loro di parlare in pubblici convegni. Vorrei qui citare, per fatto personale, la petizione lanciata un anno fa dall’ADES (Associazione amici e discendenti degli esuli istriani) per chiedere al rettore dell’Università di Ancona di negarmi la parola ad un convegno sulle questioni del confine orientale. A questa petizione, giustamente ignorata dal rettore che ha sostenuto il diritto di ciascuno ad esporre i risultati delle proprie ricerche, se documentati, avevano aderito, on line, ben 850 nomi, tra i quali spicca quello del “filosofo” Mario Merlino, il Mario Merlino che oggi è docente alle scuole superiori e che nel 1967 aveva partecipato ad un “viaggio studio” organizzato dall’estrema destra italiana nella Grecia dei colonnelli per imparare le tecniche di infiltrazione; difatti Merlino si infiltrò in un gruppo anarchico romano che fu coinvolto nelle indagini sulle bombe del 1969.

Ma perché siamo tacciati di “negazionismo”? Spiega l’esponente dell’Unione degli Istriani Enrico Neami (in un articolo dal titolo “Emergenza negazionismo!”, d.d. 14/4/07, nel sito www.lefoibe.it, sezione “ultimi aggiornamenti”)che è nata una “corrente ideologica negazionista della tragedia che sessant’anni fa colpì la nostra gente”, e per dimostrare questa tesi si rifà ad un saggio di Valentina Pisanty del 1998, che dà questa descrizione del metodo di lavoro dei “negazionisti” (va precisato che il testo di Pisanty si riferisce agli studiosi che negano la Shoah, ai quali veniamo di conseguenza accomunati):

 

focalizzare l’attenzione del lettore su aspetti specifici e particolari allontanandosi dal quadro generale per decontestualizzare un dato fenomeno storico ritenuto scomodo, l’utilizzo di slittamenti lessicali basati sul valore semantico di singoli termini linguistici utilizzati nella descrizione degli eventi storici, l’utilizzo spregiudicato di singoli documenti sconnessi da ogni vincolo archivistico o di contesto, il mascheramento del reale fine ideologico che sta alla base della tesi e l’utilizzo di strumenti comparativi propri delle scienze storiche e sociali forzandone i meccanismi e distorcendone i risultati.

Chi avesse letto il mio studio “Operazione foibe tra storia e mito”, edito da KappaVu nel 2005, nel quale avevo cercato di discernere tra fatti storici realmente avvenuti e “miti” che erano stati creati a scopo propagandistico, può ben capire come questa descrizione non ha nulla a che vedere con il mio metodo di lavoro, dato che per la stesura del libro mi sono basata su documenti ufficiali dei quali ho verificato l’attendibilità, non mi sono limitata a fare (come invece sembra essere l’uso invalso tra divulgatori storici e gli stessi storici) citazioni di cose già scritte da altri senza valutare se esse siano basate sui fatti e corrispondenti al vero, e soprattutto le conclusioni che ho tratto sono frutto di una lettura complessiva e non “sconnessa” di quanto ho analizzato.

Tra le conclusioni cui sono giunta ne voglio evidenziare una: e cioè che non si può accettare come storicamente valida un’interpretazione come la seguente, esposta dagli storici triestini Raoul Pupo e Roberto Spazzali nel loro “Foibe” (Mondadori 2004):

Quando si parla di foibe ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale.

Ma una volta fatta quella che viene definita (spesso con tono di condanna, quasi fosse semplicemente un’offesa nei confronti dei morti e non un’azione necessaria per la ricostruzione storica) la “contabilità dei morti”, si comprende come non possono essere sbrigativamente accomunate nel termine “violenze di massa” le “migliaia di vittime” cui fanno riferimento Pupo e Spazzali. Non si possono accomunare tra loro le vittime della rivolta del settembre1943 inIstria, i militari (o i civili collaborazionisti) uccisi dai partigiani o dall’Esercito jugoslavo nel corso del conflitto, i militari internati nei campi e morti di tifo, gli arrestati per crimini di guerra e condannati a morte dai tribunali jugoslavi, le vittime di vendette personali del dopoguerra. Ed in quest’ultima categoria inoltre va anche distinta la vicenda dei 18 “infoibati” nell’abisso Plutone, che furono uccisi non da partigiani ma da un gruppo di criminali comuni e membri della X Mas che si infiltrarono nella Difesa popolare a Trieste al momento dell’insurrezione di fine aprile ‘45 e si diedero a ruberie, violenze ed omicidi, non sappiamo se per criminalità pura e semplice o per provocazione. I responsabili di questi delitti furono scoperti ed arrestati dalle stesse autorità jugoslave, condotti a Lubiana, processati e condannati; due di essi furono uccisi durante un tentativo di fuga ed infatti, tra gli elenchi di “vittime degli Jugoslavi” troviamo spesso anche i nomi di alcuni di costoro.

Parlare quindi di “violenze di massa” in riferimento a tutto questo è quantomeno riduttivo: in fin dei conti stiamo parlando di un periodo di guerra, dove la violenza, di massa o no, rappresentava la regola e non l’eccezione. A mio parere, inoltre, il criterio unificante esposto da Pupo e Spazzali non solo non ha nulla di scientifico, ma consente anche a chi non ha intenzione di determinare quanto realmente accaduto ma ha come scopo la mera continuazione della montatura creata da decenni di propaganda nazionalista, irredentista e post-fascista, di procedere in questo suo fine di deformazione della realtà.

Sarebbe invece il caso di chiarire una volta per tutte che non ha senso parlare di un “fenomeno delle foibe” quando in realtà si tratta di una serie di fenomeni del tutto distinti tra loro e che hanno come elemento accomunante semplicemente il fatto che si sono svolti nel corso o in conseguenza della Seconda guerra mondiale.

Questa tesi, che io definisco del “non fenomeno delle foibe”, viene definita “negazionista” da tutte quelle persone che, come Neami, non accettano che si smentiscano decenni di propaganda. Nell’accomunare studiosi come noi ai “negazionisti” della Shoah, Neami aggiunge che

I fini e gli scopi dei negazionisti sono molteplici ma potrebbero essere riconducibili a due categorie fondamentali, ovvero, per alcuni, l’ambizione ad una sorta di legittimazione ufficiale o ufficiosa da parte di strutture accademiche o comunque accreditate nel panorama scientifico, mentre per la massa l’enfatizzazione dei valori – o meglio disvalori – di un passato di cui nulla rinnegano e di cui enfatizzano selettivamente la storia.

Ed ancora:

le tesi e le dichiarazioni negazioniste, nelle belle parole di un saggio di Claudio Vercelli, sono dichiarazioni di principio che, entrando in rotta di collisione con l’evidenza empirica, ne distorcono deliberatamente e volontariamente il lascito testimoniale e documentario.

Noi storici tacciati di “negazionismo” saremmo quindi entrati “in rotta di collisione con l’evidenza empirica”: e a questo punto bisognerebbe chiarire quale sarebbe l’“evidenza empirica” in tema di “foibe”.

A mio parere però, più che di evidenza empirica in questo caso si dovrebbe parlare dello sviluppo di una corrente ideologica ed anche storiografica, che definirei “affermazionista”, nel senso che è basata sulla semplice affermazione di un fatto non suffragato da alcuna prova, ma che viene dato per assodato visto che è stato ripetuto da decenni. In questo contesto chiunque, se pure per mezzo di prove documentate, si permetta di contestare queste “affermazioni” dimostrando che non v’è alcun documento che le suffraghi, diviene automaticamente un “negazionista”, situazione che rappresenta il capovolgimento di qualsiasi logica storiografica.

Vorrei ora fare una carrellata delle informazioni che gli “affermazionisti” continuano a diffondere sull’argomento “foibe”. Se una persona che nulla o poco sa di “foibe” fa una ricerca in rete sull’argomento, uno dei primi siti in cui si imbatte è www.lefoibe.it, che riporta delle citazioni da “Guardia d’Onore” del novembre – dicembre 2004, rivista bimestrale dell’Istituto Nazionale perla Guardia d’Onore delle Reali Tombe del Pantheon dove può leggere innanzitutto quanto segue:

Una quantificazione delle vittime è impossibile. Sarebbe impietoso, oltre che inutile ai fini di un riconoscimento, il voler sondare le voragini del Carso, scavare nelle cave dell’Istria o scandagliare il mare.

Già queste parole portano alla prima mistificazione: perché le “voragini del Carso” sono già state “sondate” a suo tempo ed i corpi recuperati (i numeri dei recuperi ci sono, da decenni); inoltre esistono gli elenchi delle persone scomparse, anche se i loro corpi non sono stati mai recuperati. E non si tratta certo delle cifre che troviamo nel sito di cui sopra, che inserisce questo interessante specchietto riassuntivo:

salme esumate 994
vittime accertate 326
vittime presunte 5.643
vittime nei gulag titini 3.174
totale 10.137

 

Abbiamo innanzitutto un migliaio circa di salme esumate, ma non si sa da dove, perché nell’Istria del 1943 risultano essere state uccise circa 400 persone, tra salme recuperate e varie dichiarazioni di scomparsa, e per quanto riguarda i recuperi del dopoguerra nelle varie cavità del triestino e del goriziano, abbiamo sì circa 600 salme, la maggior parte delle quali erano però militari uccisi durante la guerra. Dei circa 500 scomparsi nella zona di Trieste (numero che comprende tutti coloro che furono arrestati per collaborazionismo o internati come prigionieri di guerra nel corso dei 40 giorni di amministrazione jugoslava di Trieste e non rientrati), gli “infoibati” uccisi per vendette personali e recuperati dalle varie cavità della zona di Trieste furono circa una cinquantina; mentre nelle zone di Gorizia e Fiume non risultano recuperi di “infoibati” in modo sommario: i dati esistenti riguardano esclusivamente persone arrestate e internate nei campi di prigionia o arrestate, processate e condannate a morte nei tribunali jugoslavi. Si tratta di circa 550 persone per la zona di Gorizia, di circa 400 per quella di Fiume. Per quanto riguarda la zona dell’Istria, purtroppo, non disponiamo di dati certi.

In ogni caso, la tabella di cui sopra non chiarisce in base a cosa si distinguano le “vittime accertate” dalle “salme esumate” e da cosa scaturisca la “presunzione” del numero delle vittime “presunte”; il numero delle “vittime nei gulag titini” (rileviamo qui anche che l’uso del termine “gulag”, che sembra essere invalso in questo campo, non ha alcuna base storica ma è usato solo in senso fuorviante, dato che i morti nei campi di prigionia jugoslavi erano stati internati perché militari, come da normative di guerra, e non certo perché “dissidenti”, come i prigionieri dei veri gulag sovietici).

In sostanza la tabella di cui sopra propone una quantificazione del tutto arbitraria, ma come se questo non bastasse, l’articolo prosegue:

Sulla scorta della documentazione e dalle analisi compiute negli ultimi anni confermiamo che le vittime, militari e civili, per mano slavo-comunista, non furono meno di 16.500, 

con un “ricarico”, non motivato in alcun modo (di quale documentazione e quali analisi si tratti, il testo non lo dice), di ben seimila vittime “presunte”.

Per capire come si possa raggiungere questo tipo di cifre bisogna considerare come viene trattata, nello stesso sito, la questione della “foiba” di Basovizza, monumento nazionale.

Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. Lo spazio volumetrico – indicato sulla stele al Sacrario di Basovizza in 500 metri cubi (poi ridotti a 300) – conterrebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime. Una cifra agghiacciante. Ma anche se fossero la metà, questa rappresenterebbe pur sempre una strage immane… e a guerra finita!

Questa spiegazione (se così la possiamo chiamare) lungi dal chiarire come mai lo spazio “volumetrico” che conterrebbe le salme degli “infoibati” si sia ridotto di 200 metri cubi, si limita a fare propria la teoria che vorrebbe che in un metro cubo trovino posto quattro salme, ma non è questo il vero problema. Ciò che non leggerete in alcuno dei siti “affermazionisti” che parlano della “foiba” di Basovizza, è che il pozzo è stato più volte esplorato e non si sono trovati i resti di più di una decina di salme. Questo almeno è quanto risulta dai documenti conservati negli archivi britannici e statunitensi (che sono stati pubblicati non solo in “Operazione foibe”, ma dallo stesso quotidiano “Il Piccolo” di Trieste).

Se poi cerchiamo qualche “prova” di questa presunta “immane strage” andiamo in altri siti e troviamo, ad esempio, alcuni stralci della pubblicazione “La gioia violata. Crimini contro gli italiani 1940-1946” (Ares, Milano 2006) di una storica che collabora con l’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’esercito, Federica Saini Fasanotti:

Nella relazione di un tenente di vascello, si legge che a Basovizza, a circa 350 metri dal paese, anni prima era stato scavato un pozzo, detto della miniera da una società in cerca di carbone; esso era un buco verticale profondo 249 metri, la cui apertura ne misurava 36. Dal 3 al 7 maggio 1945 il pozzo fu utilizzato per uccidere prigionieri o celare cadaveri. Quando si scavò, poco tempo dopo, le salme recuperate furono 600, fra cui anche quelle di 23 neozelandesi in divisa. Testimoni oculari raccontarono di gruppi compatti, che andavano dalle cento alle cinquecento persone, precipitati nella voragine. A testimonianza di un lugubre rituale si presentava, spesso, ai gruppi di ricerca, la carogna di un cane nero: la leggenda vuole che le anime dei morti insepolti vaghino di notte, se incustodite, anelando a sepoltura; mentre la presenza del cane nero libera gli assassini della grave colpa commessa.

Sono sintetizzate in queste poche righe una serie di “inesattezze” tali da poter definire tutto il brano un cumulo di falsità storiche: innanzitutto la storica non precisa il nome del “tenente di vascello” che avrebbe scritto la relazione, nota comunque agli studiosi come “relazione Chelleri” perché attribuita a Carlo Chelleri, membro del CLN di Isola d’Istria. Il problema però è che lo stesso Chelleri smentì, anni or sono, di avere redatto questa relazione (la smentita è riportata da Roberto Spazzali nel suo “Foibe. Un dibattito ancora aperto, edito dalla Lega Nazionale nel 1990), relazione che è quindi apocrifa, e già questo ne mina l’attendibilità. Entrando nel merito di quanto scritto, dobbiamo dire innanzitutto che l’apertura del pozzo era di circa6 metri quadratie non 36; inoltre a proposito dei recuperi l’organo nazionale del partito Liberale “Risorgimento Liberale” pubblicò il 29/7/45 la seguente “Smentita alleata sul pozzo di cadaveri a Trieste”:

il Comando generale dell’Ottava Armata britannica ha ufficialmente smentito oggi le notizie pubblicate dalla stampa italiana secondo cui 400 o 600 cadaveri sarebbero stati rinvenuti in una profonda miniera della zona di Trieste. Alcuni ufficiali dell’Ottava Armata hanno precisato inoltre che non si hanno indicazioni circa i cadaveri degli italiani ma per quanto riguarda l’asserita presenza di cadaveri di soldati neozelandesi essa viene senz’altro negata. 

Fu proprio dopo la comparsa delle notizie stampa che gli angloamericani (che all’epoca amministravano Trieste) operarono delle ricognizioni a Basovizza, ma, come abbiamo detto prima, dalle loro relazioni risulta che non furono recuperate più di una decina di salme, alcune delle quali di soldati germanici.

A proposito dei soldati neozelandesi va aggiunto che nel 1996 il ministro alla difesa neozelandese rispose ad una richiesta di chiarimenti fatta da un emigrato in Australia “concernente la storia riguardo i corpi dei 27 neozelandesi scoperti nella miniera abbandonata di Basovizza presso Trieste subito dopo la fine della seconda guerra mondiale”. Ecco la risposta del ministro (datata 12/2/96, pubblicata sul periodico “Novi Matajur” di Cividale del 25/4/96), che dovrebbe mettere fine ad ogni speculazione sull’argomento: “In passato noi abbiamo indagato su simili rapporti ed abbiamo verificato che non sono basati sui fatti”.

Inoltre, la “leggenda” del cane nero è una cosa del tutto inventata che non esiste nelle tradizioni slovene, croate od istriane, mentre a proposito dei “testimoni oculari” che vengono di tanto in tanto citati non se ne conosce nessuno per nome e cognome. C’è però un documento (di dominio pubblico, in quanto apparso anche sul quotidiano triestino “Il Piccolo”; una copia si trova presso l’Archivio dell’IRSMLT), che viene spesso presentato come la “testimonianza” di due sacerdoti che avrebbero assistito agli “infoibamenti” di Basovizza. Si tratta in realtà di un rapporto stilato da un certo “Source” (nome in codice di un informatore dei servizi segreti britannici, del quale non è nota l’identità), il quale riferisce ciò che gli avrebbero detto due preti sloveni, don Malalan di Boršt-S. Antonio in Bosco e don Virgil Šček, parroco di Lokev-Corgnale, intellettuale e già parlamentare del Regno d’Italia prima dell’avvento del fascismo.

Però don Malalan si limita a riferire il suo colloquio con don Šček, e quindi non è testimone di alcunché. Vediamo ora cosa riferisce “Source” del racconto di don Šček.

Il 2 maggio egli (don Šček, n.d.a.) andò a Basovizza (…) mentre era lì aveva visto in un campo nelle vicinanze circa 150 civili che erano riconoscibili dalle loro facce quali membri della Questura. La gente del luogo voleva far giustizia in modo sommario ma gli ufficiali della IV Armata erano contrari. Queste persone furono interrogate e processate alla presenza di tutta la popolazione che le accusò (…) Quasi tutti furono condannati a morte. (…) Tutti i 150 civili furono fucilati in massa da un gruppo di partigiani, e poi, poiché non c’erano bare, i corpi furono gettati nella foiba di Basovizza.   

A questo punto vogliamo evidenziare una successiva affermazione attribuita al sacerdote, che viene invece spesso omessa da coloro (storici e no) che citano il rapporto:

quando Source chiese a don Šček se era stato presente all’esecuzione o aveva sentito gli spari questi rispose che non era stato presente né aveva sentito gli spari.

Quindi secondo il rapporto di “Source” don Šček fu testimone oculare sì, ma dei processi e non degli infoibamenti. In effetti nella zona di Basovizza era stato attivo, nei primi giorni di maggio 1945, un tribunale militare organizzato dalla XX Divisione dell’Esercito jugoslavo, davanti al quale venivano condotti gli arrestati che erano sospettati di collaborazionismo o di crimini di guerra. Il tribunale militare conduceva una sorta di processo istruttorio ed inviava poi a Lubiana, per essere sottoposti ad un regolare processo, i prigionieri sui quali gravavano prove o indizi che potevano giustificare questa sorta di “rinvio a giudizio”.

Una volta letto un tanto, risulta del tutto incomprensibile il commento introduttivo a questo documento che appare a pag. 72 del citato “Foibe” di Pupo e Spazzali, prima della pubblicazione integrale del “rapporto Source”:

Va sottolineato che dal testo si può evincere sia che alcuni degli infoibati erano ancora vivi quando vennero gettati nel pozzo, sia che a Basovizza vennero fucilati anche coloro che non erano stati condannati a morte.

Scrivere un simile commento introduttivo, quindi prima che il lettore (che mediamente ben poco sa di questi argomenti), abbia letto ed assimilato per conto proprio le fonti storiche che gli vengono proposte, significa quantomeno dargli delle indicazioni interpretative fuorvianti: non sempre (per pigrizia o superficialità) il lettore legge anche i documenti oltre alla loro presentazione, ma anche nel caso in cui il lettore leggesse, dopo il commento introduttivo, anche il documento originale, potrebbe non analizzarlo con lo spirito critico necessario, essendo stato suggestionato da quanto scritto prima dai due storici, considerandoli, proprio perché tali, “esperti” in materia ed avallando quindi la loro interpretazione.

Da quanto visto finora possiamo vedere come l’uso invalso tra divulgatori, propagandisti e, purtroppo spesso anche storiografi che trattano della questione della “foiba” di Basovizza, è quello di riprendere (a volte pedissequamente) quanto scritto da altri, senza verificare la veridicità della fonte o la realtà dei fatti descritti: ed è questa una chiara dimostrazione di cosa sia l’“affermazionismo” in materia di foibe.

Il sistema è il seguente: dato che nel 1945 qualcuno ha messo per iscritto delle notizie false in merito a ciò che sarebbe avvenuto a Basovizza e queste notizie sono state riprodotte e citate da innumerevoli divulgatori (o propagandisti), che si sono ben guardati dal citare, dopo le notizie, anche le smentite ad esse, l’affermazione che a Basovizza sarebbero state “infoibate” migliaia di persone è stata elevata ad “evidenza empirica”. Che poi vi siano fior di documenti che smentiscono questa “affermazione” e che questi documenti vengano resi noti, non sembra servire a cambiare la visione storiografica di fondo: secondo la teoria dell’“emergenza negazionista” di cui Neami è uno dei propugnatori, chi sbaglia (e quindi deve essergli impedito di parlare) non è chi afferma una cosa priva di fondamento storico, ma chi nega la falsità dimostrando che i fatti si sono svolti diversamente.

Sempre all’indirizzo www.lefoibe.it/ nella sezione “ultimi aggiornamenti”, troviamo che in data 26/10/07 è stato inserito il testo di Giorgio Rustia “Contro operazione foibe”, scritto in “risposta” ad “Operazione foibe a Trieste” di Claudia Cernigoi (il testo del 1997 che aveva preceduto “Operazione foibe tra storia e mito”), così presentato:

La risposta completa e dettagliata a tutte le teorie negazioniste di sedicenti storici e trinariciuti divulgatori che imperversano su internet, nelle librerie, ai convegni e nelle scuole.

Queste parole da sole definiscono la serietà dello studio di Rustia, ma ci sembra che chiunque abbia letto, con senso critico, i testi di Cernigoi e quello di Rustia, può constatare come la descrizione del metodo di lavoro “negazionista” descritto da Pisanty si adatti piuttosto a propagandisti come Rustia o come lo stesso Neami, che nell’articolo prima citato asserisce che il “diktat” (cioè il trattato di pace del 10/2/47) “costrinse all’esilio, condannandoli al genocidio”, gli “italiani d’Istria Fiume e Dalmazia”.

A parte che il termine “genocidio” non è parola da usare con leggerezza ed al solo scopo di colpire l’immaginario del lettore, chiunque conosca anche solo poco la storia degli italiani rimasti in Jugoslavia (in Slovenia e Croazia dopo il 1992) sa bene che questa comunità si è sviluppata negli anni producendo cultura in tutti i campi: e sono le stesse comunità istriane a vantarsi di questo fatto (per questo basti visitare il sito del Centro di cultura multimediale, www.arcipelagoadriatico.it). Tutto ciò sicuramente non solo non è “genocidio”, ma neppure “pulizia etnica”, visto che alla comunità italiana fu riconosciuto il diritto al bilinguismo in Istria, furono garantite scuole con lingua d’insegnamento italiana, organi di stampa, addirittura una radio ed una televisione (Radio e TV Capodistria).

Continuando nell’ambito “affermazionista” vorrei adesso lasciare la destra e commentare un articolo comparso sul numero di novembre 2007 della rivista “Il giudizio universale”, che si presenta come una “rivista che recensisce di tutto” e comprende, tra le proprie “firme”, diversi nomi di intellettuali e persone di cultura sicuramente non “di destra” (tra essi Michele Serra, Domenico Starnone, Vauro, Lella Costa…).

L’articolo in questione è a firma Daniel Agami (da ricerca in rete, salvo errore, dovrebbe essere attore o regista), che afferma di voler “recensire” il “museo che non c’è della foiba di Basovizza”. Agami non è evidentemente un esperto della materia, ciononostante ritiene di doverne parlare (comportamento questo che si sta purtroppo diffondendo in vari campi della vita culturale). L’esordio dovrebbe essere volutamente melodrammatico: “Foibe: dal lessico speleologico al lessico necroforo, dalla geologia alla morte”. E poi continua:

Settembre-ottobre 1943, Istria (…) Approfittando del vuoto di potere, prima dell’occupazione nazista, i contadini slavi s’impossessano di armi e caserme abbandonate e seviziano, violentano 700 italiani, fino alla necrofilia: denudano integralmente le vittime, legate con il fil di ferro, le portano in collina, e ammazzano il più vicino alle foibe – pozzi naturali dell’altipiano carsico – che, cadendo esangue, trascina le altre in foiba, vive. Saranno trovate in decomposizione tra carogne di cani neri, donne mutilate delle mammelle e con rami nei genitali, uomini evirati ed altri con i testicoli in bocca”.

È notevole l’abilità con cui l’autore è riuscito a moltiplicare i “casi singoli” citati dalla vulgata delle “foibe”, vulgata che del resto non fa riferimento a documenti reali ma (come abbiamo visto per i “miti” relativi alla “foiba” di Basovizza) si limita a diffondere “leggende metropolitane” senza alcun fondamento storico. Di conseguenza se, invece di analizzare le fonti, l’artista Agami si lascia prendere la mano dalla necrofilia, non possiamo pretendere temperanza e verità storica, perché un minimo di horror porta sicuramente più audience che non dire che all’epoca era difficile determinare su una salma riesumata in avanzato stato di decomposizione se la vittima era stata mutilata e tantomeno se era stata violentata. Per la cronaca, va precisato che il rapporto del maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich (che diresse i recuperi dei cadaveri dalle foibe istriane nell’inverno 1943-44, sotto controllo germanico), rilasciato nel 1945 alle autorità alleate, nel quale descriveva le modalità e la consistenza delle riesumazioni, riferisce di un solo cane nero recuperato da una foiba (che poteva essere caduto dentro per sbaglio…) e di una sola donna mutilata, mentre il sacerdote che anche altrove viene descritto come evirato e con i testicoli in bocca, nel rapporto Harzarich non risulta così ridotto. Ed abbiamo qui un’altra dimostrazione di come venga capovolta la logica della correttezza storica: dato che la “mitologia” delle foibe ha ripetuto per anni che la salma di don Tarticchio era stata trovata con il capo cinto da una corona di spine ed i genitali in bocca, dire che Harzarich nel suo rapporto non fa parola di tutto questo, invece di essere riconosciuto come una doverosa precisazione, viene definito “negazionismo”.

Proseguiamo con la lettura di Agami:

 Maggio-giugno 1945, Basovizza. In Italia è avvenuta la Liberazione, a Trieste il 1 maggio ‘45 arrivano i partigiani slavi di Tito, un giorno prima dei neozelandesi, occupano la regione, lotto di contesa non solo tra l’Italia e la futura Jugoslavia, ma tra l’URSS e l’Occidente. Ci sono tutti. Soldati nazisti. E poi avvocati, farmacisti, medici, bidelli, preti. Sono fascisti, liberali, partigiani cattolici, comunisti, azionisti: italiani. Duemila e cinquecento. Condotti a 377 metri d’altitudine, poi giù, caduti nell’oscuro, oscurati dall’umano (…).Per disperderne i resti, i soldati di Tito lanciano bombe sopra le foibe, fino al 12 giugno ’45, quando la zona passa all’amministrazione anglo-americana.

Anche qui Agami si lascia andare ad una descrizione che sembra un frullato di tutto quello che è stato detto, più a sproposito che a proposito, sulle foibe. La cosa più importante è che per l’ennesima volta non si vuole riconoscere un particolare storico di non poca importanza, e cioè che l’Esercito jugoslavo era uno degli eserciti alleati (nel quale combatterono volontari di diverse nazionalità, tra cui anche moltissimi italiani), ed entrò a Trieste con lo stesso diritto con cui gli Angloamericani conquistarono il resto d’Italia. Eppure non sentiamo quasi mai parlare di “occupazione” angloamericana: è opinione corrente che il Nord Italia fu “liberato”, mentre Trieste fu “occupata”, e per dare più forza a questa mistificazione storica, è invalso l’uso di parlare sempre di “partigiani slavi di Tito” invece che di Esercito jugoslavo, come sarebbe corretto fare.

Agami comunque va anche oltre: riesce a mettere come “infoibati” a Basovizza ancora più gente di quanta ne mettano gli altri, mescola le qualifiche degli “infoibati” del 1943 con altre categorie (partigiani comunisti, ad esempio) che non furono mai repressi dalle autorità jugoslave. È vero invece che alcuni membri del CLN italiano furono arrestati dalle autorità jugoslave, e alcuni di essi dovrebbero essere stati fucilati a Lubiana (il condizionale è d’obbligo perché si sa che non rientrarono dalla prigionia ma non si sa che fine effettivamente fecero), questo però non perché erano “italiani”, quanto perché avevano combattuto contro gli alleati jugoslavi. E qui torniamo al discorso precedente: non riconoscendo la Jugoslavia come paese alleato, non si riconosce alla Jugoslavia di avere avuto il diritto di disarmare il CLN locale (come da accordi con il CLNAI) e di conseguenza reprimere chi non consegnava le armi (il CLN triestino aveva cercato di conservare le armi ed aveva continuato la “resistenza” contro le autorità jugoslave); né il diritto di fare prigionieri di guerra e di internarli nei campi di prigionia (per triste che sia questo fatto, è previsto dalle leggi di guerra, ed è stato compiuto da tutti gli eserciti vincitori nei confronti degli sconfitti); non le si riconosce infine di avere avuto il diritto di arrestare criminali di guerra, fascisti, gerarchi, collaborazionisti, di processarli e condannarli.

Ma nel “frullato” di Agami vediamo anche l’ennesimo danno prodotto dalla teoria di Pupo e Spazzali sul “significato simbolico e non letterale” del termine “foibe”: infatti tutti i morti durante il conflitto “per mano jugoslava”, Agami ritiene che siano stati “infoibati” a Basovizza.

E questo in una rivista che non è prodotta da un gruppo di estrema destra o da qualche associazione di irredentisti, ma che, dalle firme che vanta, si presenta come una pubblicazione “seria” e (forse) “di sinistra”. Ed infine ancora un’osservazione: per diffondere “bufale” a 360 gradi ad Agami sono bastate poche righe, mentre volendo raccontare i fatti come sono realmente accaduti non bastano le poche righe usate da Agami, bisogna approfondire, spiegare, citare documenti. E nell’epoca dell’apprendimento veloce, della “cultura in pillole” e degli spot, chi mai si metterebbe a leggere un articolo “pesante”, con citazioni documentali e riferimenti, quando invece fa tanto “cultura” un articolo ad effetto, ancorché privo di fondamento?

C’è poi il problema delle onoranze ai cosiddetti “caduti delle foibe”: commemorazioni, erezioni di monumenti e lapidi, intitolazione di vie, la legge in vigore da due anni che prevede l’assegnazione di una medaglia agli eredi di “infoibati”, consegnata dal Presidente della Repubblica in persona. Delle persone che hanno finora ricevuto questa onorificenza si parla in altra parte di questo convegno, ma vorrei rilevare che, purtroppo, molti dei cosiddetti “infoibati” si sono macchiati in vita di vari crimini, dal mero collaborazionismo e delazione, ad atti di violenza, torture, omicidi. Ritengo che si possa provare umana pietà nei confronti dei morti, ma da qui ad onorare chi tradiva, spiava, torturava ed uccideva ce ne corre. Per fare un esempio pratico, voglio ricordare che, da risultanze storiche e giudiziarie, l’unica persona che risulta effettivamente uccisa e gettata nella “foiba” di Basovizza, è l’ex tranviere Mario Fabian, che si arruolò volontario nell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza diretto dal commissario Collotti, e nel corso di rastrellamenti antipartigiani ebbe modo di distinguersi perché torturava i prigionieri con la corrente elettrica. Per queste sue azioni era stato condannato a morte da una sentenza emessa dal Distretto Militare per l’Istria, ed i partigiani che eseguirono la condanna confessarono di averlo ucciso a Basovizza.

Quindi, quando si vanno a rendere onori agli “infoibati” a Basovizza, bisognerebbe forse rendersi conto di chi era concretamente la persona che si va ad “onorare”.

Gli esempi potrebbero continuare ancora a lungo, ma vorrei andare verso la conclusione di questo intervento citando alcuni stralci da un articolo di “Trieste Sera” del 4/2/48 (sessanta anni fa!), perché mi sembrano tragicamente ancora attuali.

A Trieste non avvenne come nell’Italia settentrionale. Niente morti ai margini delle strade, niente uccisioni sulla soglia di casa. Gli arresti o “prelevamenti” avvenivano sulla base di precedenti segnalazioni. La maggior parte degli arrestati ritornavano a casa dopo alcuni giorni di indagini e molti subito. Sarebbe interessante invitare tutti gli arrestati durante i primi giorni di occupazione della città che hanno ripreso immediatamente la loro vita civile e sarebbe interessante vedere quanti di essi erano compromessi col fascismo e col nazismo per giudicare le autorità popolari d’allora. Circa 2.500 persone vennero arrestate e trattenute, 2.500 su 250.000, dunque l’uno per cento. Molte di queste ritornarono durante questi due anni e mezzo, ma del loro numero nessuno si occupò di tener conto. Oggi tutti, anche i ritornati, vengono sempre fatti figurare come scomparsi.

S’era costituito, circa 20 mesi addietro, un comitato delle famiglie degli scomparsi, infatti al raduno presero parte circa 500 persone a detta dei giornali. Perché non sono intervenuti i familiari degli altri duemila?

(…) Nella propaganda audace ed in malafede condotta da certi gruppi politici, si accomuna l’azione del maggio 1945 con quella del luglio 1943 (deve intendersi “settembre”, n.d.a.). Allora c’era la guerra e le foibe “lavoravano” in qualche distretto istriano dove il fascismo aveva imperversato con maggior forza. Quella campagna venne iniziata con incredibile spudoratezza dai repubblichini del settembre, ma di un tanto non si poteva meravigliarsi. Era ritornato il fascismo. (…) Eppure le “foibe” del 1943 vengono citate come rincalzo alle “foibe” del maggio 1945. È dunque evidente che sono sempre gli stessi che nel 1943 sfruttarono le foibe per conto dei repubblichini e che oggi le sfruttano in favore degli eredi dei repubblichini.

(…) La gazzarra inscenata sul maggio 1945 cesserà, come cesseranno tutte le altre consimili speculazioni. Resterà a noi di chiedere solamente: “Fate i nomi degli scomparsi”. Tutti sanno che questi nomi sono conosciuti e che in un certo armadio di ferro vi sono le relative cartelle. Perché si parla sempre d’un grande numero di scomparsi per mantenere l’opinione pubblica in agitazione? Un settimanale liberale di sabato scorso portava già gli scomparsi a tremila e parlava di una foiba a Basovizza dove dovrebbero esserci mille cadaveri, senza tener conto che il pozzo indicato è già stato esplorato e vuotato del suo macabro contenuto (…) la maggior parte dei morti erano tedeschi caduti nei combattimenti (…).

Ma questo non conta, bisogna attizzare l’odio, bisogna non lasciar cadere il pretesto, bisogna esagerare, bisogna, se è necessario, anche mentire.

(…) Bisogna dunque finirla con questa propaganda d’odio. Abbiamo atteso affinché le cose si sistemassero da sole, vediamo invece che non si vuole giungere ad una distensione. Dobbiamo per questo chiedere al Governo Militare Alleato che possiede i dati degli scomparsi un aiuto, affinché noi si possa in qualche modo collaborare al fine di chiarificare questo argomento che tiene ancora tanto a disagio l’opinione pubblica.

Questo articolo, così chiaro nel descrivere un clima che purtroppo conosciamo bene anche oggi, espone dei fatti che sono stati confermati dalle nostre ricerche in materia. Eppure parole come queste, scritte allo scopo di cessare la “propaganda d’odio”, parole che noi sottoscriviamo da tempo chiedendo che si giunga alla “distensione” auspicata anche sessant’anni fa, non vengono recepite da chi parla di “foibe”. No, noi che chiediamo si faccia chiarezza, si ripristini la verità e si smetta di propagandare odio antijugoslavo, anticomunista, antipartigiano, noi veniamo tacciati di essere “negazionisti” che agiscono mascherando il loro “reale fine ideologico”, mentre gli stessi che ci accusano di tanto sono gli stessi che perseverano nell’esagerare il numero dei morti e ad inventare cose mai successe, proprio per “attizzare l’odio”, cioè mantenere viva la tensione quando si affrontano questi argomenti.

In questo contesto un ultimo accenno va fatto alla proposta di un “percorso della riconciliazione sulle terre di confine”, auspicato da vari settori (a destra come a sinistra), che dovrebbe vedere autorità italiane, slovene e croate rendere omaggio ai “luoghi della memoria”, individuati nel campo di internamento fascista di Gonars, presso Udine (dove trovarono la morte donne, vecchi e bambini), la Risiera di San Sabba a Trieste (campo nazifascista di smistamento per ebrei e di sterminio per partigiani), e la “foiba” di Basovizza.

Ma una “riconciliazione” che si basa su un falso storico non mi sembra un buon punto di partenza per la convivenza tra i popoli, e che reiterare notizie di massacri mai avvenuti, allo scopo di creare un contraltare “jugoslavo” o “comunista” ai crimini commessi dal nazifascismo, non è comportamento che possa aiutare né a fare chiarezza storica né a distendere i rapporti tra i popoli di queste terre.

A questo proposito voglio chiudere il mio intervento sottoscrivendo le parole del sindaco di Muggia Nerio Nesladek alla commemorazione partigiana di Kucibreg (Croazia) il 5 novembre 2006:

Molto si va parlando in questi tempi di pacificazione, della necessità che i capi delle tre repubbliche di Croazia, Slovenia ed Italia si incontrino e assieme rendano omaggio ai luoghi della memoria. Ebbene, i popoli di queste terre, per questa pacificazione, forse non hanno bisogno di aspettare questi incontri, spesso solo formali: la pacificazione l’hanno compiuta già allora, combattendo assieme per la libertà, la democrazia e il progresso sociale. E non solo qui, in questo o in altri luoghi dell’Istria: essi avevano già cominciato molti anni prima, assieme in terra di Spagna, per difendere quella Repubblica dall’attacco fascista.

 

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