ANDERSEN E LE FOIBE

ANDERSEN E LE FOIBE.

Cosa c’entra lo scrittore danese Hans Christian Andersen con le foibe? In effetti, con le foibe c’entra poco, però in una sua novella (purtroppo poco nota) ci spiega in maniera esemplare il modo in cui funziona la diffusione delle notizie partendo da un particolare e trasformandolo in corso d’opera fino ad arrivare a tutt’altro da ciò da cui si era partiti. Sistema questo che a volte avviene per caso e senza secondi fini, ma viene spesso usato dai propagandisti senza scrupoli (e qui non parliamo solo dell’argomento “foibe”, ma di per qualsiasi altro argomento).
Prendiamo quindi la novella “Vero, verissimo”, dalla quale riportiamo i passaggi più significativi (la versione in nostro possesso è quella contenuta nelle “40 novelle”, tradotte da Maria Pezzè-Pascolato e pubblicate la prima volta nel 1904 dall’editrice Hoepli). La vicenda si svolge in campagna, in un pollaio, dove una gallina bianca “una gallina rispettabilissima, sotto ogni riguardo”, al momento di mettersi a dormire, mentre si ripulisce, si accorge che le si è staccata dal petto “una piccola piuma bianca”.
“Eccola andata!” è il commento della gallina, e aggiunge “Più mi becco e più bella divento!”, e qui l’autore specifica che “lo disse per ischerzo, perché era sempre di buon umore e le piaceva scherzare”.
Però questo suo “scherzo” fu ripreso da una gallina che si trovava nei pressi, che nel “ripeterlo” alla sua vicina disse: “Io non faccio nomi né voglio farne, ma c’è una gallina qui dentro, la quale dice che si strappa le penne puramente per parere più bella. Se fossi io il gallo, la disprezzerei!”.
E sopra il pollaio, dove abitava la famiglia della Civetta, questa frase della seconda gallina fu così raccolta: “C’è tra quelle galline una civettuola svergognata che dimentica le regole della convenienza al punto da spogliarsi di tutte le penne, per parere più bella!”.
Poi la Civetta andò a parlare con un’altra Civetta ed assieme andarono alla piccionaia, dove così parlarono ai piccioni: “Avete sentito? Uh, c’è una gallina che s’è strappata tutte le penne per amore del gallo. È tutta gelata… morirà d’infreddatura, se non è già morta ora che parliamo”.
Ed i piccioni, dopo essersi convinti che la storia era “vera, verissima”, “tubarono la notizia nel pollaio ch’era sotto la loro piccionaia”, e la “tubarono” così:
“C’è stata una gallina (e chi dice che fossero due…) che si spennò tutta, per apparire diversa dalle altre ed attirare l’attenzione del gallo. Ma è un gioco pericoloso, perché c’è da buscarsi un colpo d’aria, e da morire di febbre reumatica. In fatti, tutte e due sono morte!”.
A questo punto il gallo, ancora insonnolito, saltò sullo steccato e si mise a cantare: “Tre galline sono morte d’amore, d’una passione infelice per un gallo. Si sono strappate tutte le penne ad una ad una. Ah, è una storia terribile! Non posso tenerla per me solo: bisogna portarla in giro”.
E così dai pipistrelli alle galline agli altri galli, tutti si misero a strillare e schiamazzare e “la notizia si diffuse di pollaio in pollaio e alla fine ritornò a quel primo pollaio dond’era partita”.
Ma in quali termini ritornò? “Cinque galline s’erano tutte spennate, a fine di vedere quale tra loro si fosse ridotta più magra e consunta dal grande amore per il gallo, poi avevano leticato tra loro e s’erano beccate a sangue, ed eran cadute a terra morte, a grande vergogna e sventura delle loro povere famiglie, a grande danno del proprietario”.
La storia giunse così anche alla prima gallina, che la credette veritiera e “ne fu indignata”, al punto da affermare che “non bisognerebbe che una storia simile passasse sotto silenzio. Per conto mio, farò tutto quanto posso perché sia stampata sui giornali e diffusa per tutto il paese”.
La storia fu “stampata e pubblicata sui giornali”, e l’autore trae la seguente conclusione: “che una piccola penna possa gonfiarsi, allungarsi, metter le frangie, sino a divenire cinque galline… questo, ve lo assicuro, è vero verissimo”.

Questa novella ci è venuta spesso in mente quando analizzavamo le varie “leggende metropolitane” o le “mitologie” in materia di “foibe”. Parliamo della questione del cane nero, quello che, secondo la vulgata corrente, gli “infoibatori” usavano gettare sopra gli “infoibati” per impedire alle anime degli uccisi di trovare pace, spacciata come una “tradizione balcanica” mentre di essa non vi è alcuna traccia nelle credenze istriane, croate o slovene (e, del resto, va precisato che dalle testimonianze in una unica foiba risulta essere stato ritrovato un cane nero morto, che avrebbe anche potuto essere caduto lì per caso).
Ma, tralasciando le altre “mitologie” d’ispirazione cruenta e sadica, parliamo ora di come si è evoluta in stile “andersiano” la questione della bandiera italiana usata come straccio per pulire nella sede del Comando del II settore di Trieste, nella villa Segrè durante i “quaranta giorni” di amministrazione jugoslava. Partendo dal fondo (cioè dall’ultimo che – per quanto di nostra conoscenza – ne ha trattato), leggiamo cosa scrisse il giornalista Riccardo Pelliccetti (già militante del Fronte della Gioventù triestino negli anni 70) in un articolo riportato nel pamphlet “Il rumore del silenzio” edito da Azione Giovani di Trieste nel 1997:
“Silvana Spagnol ha presentato alle autorità alleate una denuncia relativa alle violenze subite e alla sparizione della professoressa Elena Pezzoli, nota antifascista e membro del CLN, ma italiana (interessante questo “ma”: come se essere antifascisti ed italiani fosse di per sé contraddittorio, n.d.a.), costretta durante le varie sevizie a pulire il pavimento con la bandiera tricolore”.
In realtà nella denuncia di Silvana Spagnol (che si trova negli atti del CLN dell’Istria e nell’archivio del Ministero degli Affari Esteri, ma è stata anche pubblicata da Marco Pirina nel suo “Genocidio…” edito nel 1995) si legge:
“risulta (…) che una signora arrestata e detenuta nella Villa per due giorni fu costretta a pulire in terra con la bandiera tricolore lacerata”.
Una signora, dunque, non la professoressa Pezzoli della quale la signora Spagnol parlerà invece a parte. E vediamo ora come raccontò l’accaduto la diretta protagonista della vicenda, cioè la signora Emi Pirnetti, nel 1947, nel corso dell’istruttoria per i fatti collegati agli “infoibamenti” nell’abisso Plutone: “il compagno Doro mi condusse al primo piano ove mi incaricò di eseguire la pulizia dei mobili e per l’occasione mi fornì uno straccio che era residuato da una bandiera italiana”.
Così la vicenda della signora Pirnetti, che aveva chiesto ella stessa (come risulta in altra parte della testimonianza) di fare qualcosa mentre era trattenuta alla villa, che fu incaricata di pulire i mobili con i resti di una bandiera italiana, e non parlò mai di maltrattamenti o sevizie, cambia, di testimonianza in testimonianza, fino a diventare una cosa del tutto diversa, che richiama violenza e costrizione, oltre che essere riferita a tutt’altra persona.
Però, quando si fa notare una cosa del genere, cosa ci rispondono i “foibologi”? Ma che siamo “negazionisti”, perbacco!

Claudia Cernigoi, febbraio 2008

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