MAGGIO 1945: TRST JE NAŠ! Una controlettura dei 42 giorni

 

Vincenzo Cerceo

MAGGIO 1945: TRST JE NAŠ!

Una controlettura dei 42 giorni.

“All’epoca dell’occupazione jugoslava
il maggior numero di arresti, deportazioni ed uccisioni
era stato provocato ed eseguito da elementi locali,
il più delle volte per vendette personali”.
Dai “Diari” di Diego de Henriquez, n. 45, pag. 10.506.

“coi budei del più bon s’ciavo impicar el più cativo”
(modo di dire triestino di fine ‘800,
tratto dalle carte di polizia dell’Impero
conservate presso l’archivio di stato di Trieste).

“se i s’ciavi vol la scola che vadi a star a Lubiana,
Trieste xe italiana e tale resterà”
(canzone cantata negli anni ‘50 dagli estremisti di destra triestini).

PREMESSA.
V’è un argomento su cui la storiografia di regime, di destra e di sinistra, va, oggi, assolutamente all’unisono: nella condanna, cioè, assoluta ed acritica dei 42 giorni di amministrazione jugoslava di Trieste, dopo che le truppe di Tito alleate con gli occidentali e con i sovietici in funzione antinazista ed antifascista, ma anche alleate, è bene non dimenticarlo, del legittimo (seppure indegno) governo badogliano dell’Italia dell’epoca, avevano liberato la città dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti locali.
Il IX Korpus, che fu incaricato di marciare sulla città, giunse il 1° maggio 1945, in Trieste con gli organici dimezzati per la durezza dei combattimenti, visto che i tedeschi avevano adottato una strategia ben precisa: arrendersi agli alleati occidentali e combattere fino all’ultimo contro gli “slavi comunisti” allo scopo di tentare a fare sì che fossero per primi gli angloamericani ad entrare in città.
Era, questo, parte degli accordi che il comandante della SS in Italia, generale Wolf, aveva stipulato con Allen Dulles, capo dell’intelligence americana in Europa all’atto di arrendersi agli stessi alleati, ottenendo così salva la vita per ignobili delinquenti quali il generale SS Odilo Lotario Globocnik (un triestino, è bene non dimenticarlo).
A leggere la storiografia odierna su questi argomenti, sembra ormai che tutto sia stato già scritto e che nulla debba essere ancora acclarato, che non occorra più fare ricerca in proposito, visto che, ormai, l’ultima parola è stata già detta.
È cosi che interi archivi, come quello del Comune di Trieste sulla giunta Pagnini, rimangono inesplorati dagli storici professionisti di regime, e, nei confronti di chi azzarda ipotesi ed opinioni diverse, se pure documentate, si esprime il giudizio rapido e sbrigativo di “negazionisti”.
Ancora più impressionante è lo schieramento dei mass-media su questi argomenti: semplicemente, le opinioni di coloro che non sono in sintonia con la verità ufficiale e la verità di regime, vengono taciute. Questa informazione stile Goebbels dei mass-media locali rappresenta, dal punto di vista psicologico, l’equivalente del rogo dei libri proibiti che il Führer ordinò all’inizio del suo potere assoluto; oggi, nell’unidimensionalismo marcusiano che stiamo vivendo, non c’è più bisogno di bruciare alcunché, basta mettersi d’accordo con gli editori e i direttori degli organi di informazione per ottenere gli stessi risultati in modo assolutamente soft, senza clamori, con stile post-moderno.
A volte, questa strumentalizzazione della storia per fini politici da parte di tanti storici ufficiali (qualche eccezione v’è, ma sono, appunto, eccezioni) assume aspetti particolarmente inaccettabili, come nel caso dei “diari” (inediti ma consultabili) che Diego de Henriquez, personaggio triestino strano ed inquietante ma assolutamente scrupoloso ed obiettivo, ha lasciato. Questa fonte, preziosissima, per la storia recente della città di Trieste, è stata trascurata dagli storici, almeno fino ad ora, perché assolutamente scomoda. Approfondiamo ora brevemente questo argomento.

UNA DOCUMENTAZIONE DIMENTICATA.
Presso i Civici musei di Trieste, sono conservati 287 grossi diari, oltre a quaderni di bozze, per oltre 50.000 pagine scritte con scrittura minuta e chiarissima dal professor Diego de Henriquez, un personaggio che i più ricordano come collezionista e raccoglitore di armi ed oggetti di argomento guerrologico o polemologico. In effetti, in questa veste egli compì un’opera davvero eccezionale, lasciando alla città di Trieste una raccolta di centinaia di migliaia di pezzi ancora in fase di sistemazione, che negli anni ‘70 fu valutata oltre 30 miliardi di lire dell’epoca. De Henriquez però fece anche qualcosa di più: a partire dal 1941 e fino alla sua tragica e misteriosa morte avvenuta nel 1974, annotò tutto quello che vedeva e sentiva su delle agende che conservava e catalogava con assoluta pignoleria.
De Henriquez parlava e comprendeva praticamente tutte le lingue d’Europa, aveva fatto studi tecnici ed era preparatissimo in materia di armi, fortificazioni e naviglio di ogni tipo. In tutti questi settori, ad una indiscutibile ed indiscussa competenza tecnica egli aggiungeva soprattutto una grandissima passione. Riuscì ad essere in rapporti di amicizia con tutti gli organi di intelligence dell’epoca: quella tedesca, quella fascista prima e dopo il 25 luglio 1943, quella partigiana bianca, quella jugoslava, quelle alleate. De Henriquez parlava con tutti, riscuoteva la fiducia di tutti ed annotava tutto quello che gli veniva detto.
Negli anni ‘90 i suoi diari furono acquisiti ed in parte fotocopiati da un magistrato veneziano, il dottor Carlo Mastelloni, che ha compiuto e portato a termine l’unica inchiesta giudiziaria complessiva nel nostro paese sull’intera strategia della tensione; un’enorme lavoro, che se pur non ha condotto a sbocchi giudiziari, ha tuttavia contribuito in modo fondamentale a scrivere una pagina di storia italiana decisiva per i tempi recenti e soprattutto ha reso con quella documentazione un servizio impagabile per la democrazia. È bene rilevare che quei diari non sono ancora stati consultati in maniera sistematica da nessuno storico professionista, eppure contengono notizie molto importanti, tali da rendere possibile, se presi in esame, la rimessa in discussione di quasi tutte le certezze che oggi vengono così arrogantemente sbandierate, incluse quelle relative ai 42 giorni di occupazione jugoslava di Trieste. Ma forse è proprio per questo che nessuno li va a vedere?
Noi, che storici non siamo ma giornalisti dediti alla controinformazione, abbiamo potuto consultare alcuni di questi diari ed abbiamo visto come il “professore” parli ad esempio con precisione della sostanziale adesione dell’opinione pubblica cittadina all’amministrazione germanica: quasi la metà della popolazione, secondo lui, collaborò in un modo o nell’altro con i nazisti in quei due anni. Nell’immediato dopoguerra, quando a Trieste erano detenuti molti prigionieri tedeschi, gli stessi militari alleati erano meravigliati per le grandi manifestazioni di solidarietà e di concreto sostegno che uomini e donne triestini dimostravano verso i tedeschi prigionieri, anche SS. Grazie ai triestini molti tedeschi poterono fuggire e de Henriquez indica anche i percorsi e le basi usate per queste fughe: questo però non sembra interessare gli storici, così come nessuno è interessato a casi addirittura vergognosi di collaborazionismo, come quello dell’interprete triestino delle SS che eliminava negli interrogatori, nel tradurre le risposte, tutti quegli elementi che avrebbero potuto giocare a favore dell’arrestato. O quello dell’avvocato di grido, poi riciclato nel dopoguerra nelle partecipazioni statali, che dopo l’8 settembre 1943 compilò un elenco di 40 ebrei e lo portò al comandante SS di propria iniziativa.
De Henriquez mette poi in evidenza la totale inadeguatezza ed improvvisazione dell’insurrezione di fine aprile ‘45 organizzata dal CVL di Fonda Savio e don Marzari, dimostrando in maniera fin troppo chiara come quell’operazione fosse stata posta in essere solo dopo che i dirigenti del CVL avevano avuto la certezza assoluta della partenza dei tedeschi, allo scopo di giocare dal punto di vista politico una carta in più contro i partigiani filotitini comandati da Franc Štoka, un triestino di Santa Croce, il quale aveva loro comunicato l’intenzione di insorgere il giorno dopo e li aveva invitati ad un’azione comune. Un atto di vera e propria furberia politica, insomma. Leggiamo ancora, che il primo carro armato jugoslavo che giunse a Trieste era guidato da un altro triestino di Santa Croce, Sirk, ed è molto interessante leggere quello che dice il capitano Ercole Miani a proposito di scomparsi ed infoibati: “in effetti gli scomparsi furono poco più di 500 in tutto, ma si continua a parlare di migliaia perché la cosa è utile in funzione anticomunista ed antislava”. Questo esattamente riporta de Henriquez (pag. 12.512, diario 52).
Abbiamo provato a ricostruire le vicende di quei 42 giorni in base ai dati documentali (quei pochissimi e scarsissimamente reperibili ad esempio presso l’archivio storico del Comune di Trieste ed altre fonti). L’impresa è stata ardua ed ha richiesto un grande sforzo di riflessione, perché si è dovuto lavorare sul pochissimo, sulle briciole di documentazione, sulle deduzioni; ma riteniamo che, comunque ne sia valsa la pena.

I “42 GIORNI” IN COMUNE.
Presso l’archivio comunale di Trieste la documentazione dell’attività svolta in quei 42 giorni in cui l’amministrazione comunale continuò a funzionare regolarmente e con lo stesso personale (tranne qualche eccezione) che aveva servito sotto l’amministrazione nazista (nessuna epurazione sommaria e nessun infoibamento di quel personale!) è semplicemente scomparsa. Quando l’esercito jugoslavo abbandonò la città, il 12 giugno 1945 per fare posto agli angloamericani, forse asportò tutto il carteggio prodotto. La cosa ci dispiace, anche perché indica uno stato di inizio di guerra fredda che si manifestava con evidenza. Quelle carte, però, ne siamo convinti, se fossero state lasciate, oggi giocherebbero, e molto, a favore dell’amministrazione jugoslava, che tanto, in tutti i modi, tentò di assicurare una normalità alla popolazione di questa città.
La loro mancanza consente di parlare di terrore, disordine, arbitrio e così via, ma abbiamo motivo di ritenere che non fu esattamente così.
Se facciamo riferimento ai “diari” di de Henriquez, quanto si legge nel diario n. 45 è estremamente chiaro: l’esercito jugoslavo, secondo il “professore”, aveva l’ordine preciso di usare moderazione e suo compito fu anche quello di impedire che a livello locale le inevitabili vendette diventassero eccessive. Di quella documentazione però sono rimaste davvero solo briciole; per ricostruire a livello documentale qualcosa bisogna usare il metodo deduttivo, partendo, ad esempio dall’amplissima documentazione che il governo militare alleato ha invece lasciato.

I “DANNI”.
Il 17/6/45 il governatore militare angloamericano di Trieste che gestiva la città in assenza di un’amministrazione civile che gli alleati (contrariamente a quanto avevano fatto sia i germanici che gli jugoslavi), tardarono molto ad installare ed autorizzarono solo a settembre inoltrato del 1945 emetteva una delibera, la n. 16 UAC, che è integralmente riportata nel registro delle delibere che in quel tormentato 1945 documenta gli atti amministrativi in città di ben quattro gestioni: la filotedesca, la jugoslava, la militare alleata ed infine la nuova amministrazione civile cittadina. Argomento di questa specifica delibera è la regolazione degli ammanchi accertati dopo lo sgombero delle truppe jugoslave dal palazzo municipale. Nei primissimi giorni di maggio, infatti, sia i partigiani sia l’Armata jugoslava occuparono gli uffici comunali paralizzando inevitabilmente l’attività degli stessi, come del resto è ovvio che accada in una situazione di occupazione militare. La cosa però durò solo qualche giorno, dopo di che gli uffici ripresero a funzionare regolarmente con gli stessi dirigenti e lo stesso personale che aveva operato sotto l’amministrazione germanica. Fatti i conti di quanto mancava perché asportato dalle truppe jugoslave che si erano ritirate in seguito agli accordi raggiunti, la somma complessiva è calcolata in Lire 1.102,50. Se si tiene conto che all’epoca lo stipendio di un dirigente comunale superava, e di parecchio, le duemila lire mensili, se ne trae, dunque, la conclusione che i “danni” arrecati all’amministrazione comunale da coloro che avevano liberato la città dai nazisti e dai loro alleati triestini, con eccezionale contributo di sangue versato, ammontava alla metà dello stipendio mensile di un singolo funzionario. L’affitto che Pagnini pagava per l’ufficio del Deutsche Berater (cioè il consulente tedesco, insediato a fianco di ciascun vertice dell’amministrazione, strumento diretto el Supremo commissario del Reich) al Tergesteo era di lunga superiore alle tremila lire. Dunque, se ne trae l’inevitabile conclusione che le truppe jugoslave non effettuarono alcun saccheggio della proprietà pubblica della città. De Henriquez aveva pertanto ragione ad esprimersi in tal modo nei propri diari. Se vogliamo soltanto fare un paragone tratto dai diari di de Henriquez, vediamo che altrove ad opera di altri “liberatori” non fu sempre così: ad esempio, dopo la liberazione di Macerata, dove si erano acquartierate truppe polacche, la popolazione dovette presto chiedere l’allontanamento di quei soldati perché rissosi, violenti, ubriaconi, attaccabrighe e soprattutto ladri e saccheggiatori. Sono questi paragoni che a nostro parere andrebbero fatti.

AMMINISTRAZIONE.
Il 13 giugno 1945 l’amministrazione alleata acquisiva a protocollo una lunga e dettagliata relazione sulla situazione dell’Acegat (Azienda Comunale Elettricità, Gas, Acqua e Trasporti), la quale ovviamente era stata preparata e stesa dall’amministrazione jugoslava per se stessa, non potendo certo conoscere in anticipo i funzionari dell’Acegat la data di partenza delle truppe jugoslave e la data del cambio di amministrazione. È un documento molto analitico e corposo che fa il punto organico, operativo e gestionale di quell’importante settore della vita cittadina: 5.537 impiegati, 1.768 operai e 20 milioni di deficit annuo che si conclude con una richiesta: un contributo straordinario di almeno 10 milioni per consentire alla società di continuare ad operare al minimo di efficienza. E ci sembra una richiesta che si fa non certo nei confronti di nemici o di occupanti che terrorizzano ma verso dirigenti cui ci si rivolge con la fiducia che essi possano risolvere un problema serio. Anche questi elementi riteniamo, vanno presi in considerazione così come vanno prese in considerazione le due lettere interne (le due uniche rimaste presso gli atti della segreteria generale del comune) con cui gli uffici comunali si danno comunicazione che venga informato il pubblico di cambio di locali aperti al pubblico disposti dall’autorità militare. Il tutto nella più normale prassi burocratica, allora come sempre.

LA CRONACA DELLA CITTÀ.
Anche se le carte ufficiali dei 42 giorni sono state portate via dall’esercito jugoslavo il 12 giugno 1945, rimane però la cronaca, abbastanza dettagliata, di quel periodo, così come è riportata dal quotidiano dell’epoca della città: “Il nostro avvenire” (costo: 1 lira). Iniziò le pubblicazioni il 4 maggio 1945, appena liberata la città e le cessò l’8 giugno, alla vigilia del ritiro, concordato con gli alleati, delle truppe jugoslave da Trieste. Sul primo numero, accanto ad una foto in prima pagina del Maresciallo Tito in divisa, sono indicati, anche i primi quattro ordini emessi dalla nuova autorità che viene installata in città, a firma congiunta del Commissario politico Štoka e del Comandante militare, maggior generale Cerni. Si danno direttive sul coprifuoco, sulla consegna delle armi, la divisione della città in quattro settori, l’obbligo per i soldati tedeschi di arrendersi e così via. Al numero quattro va data precisa disposizione a tutti gli impiegati ed addetti civili di presentarsi al lavoro e di far continuare la vita della città nella più possibile normalità.
Il giornale riporta molte notizie di cronaca internazionale e molte notizie di cronaca italiana, politica e non, nonché, ovviamente, la puntuale comunicazione di quanto avveniva in città. Il primo organo della società civile di cui si riporta un comunicato, è il Comitato per la gioventù antifascista, ma ben presto molte altre categorie di cittadini costituiscono le loro associazioni. I fatti luttuosi del 5 maggio, in cui erano avvenute manifestazioni antijugoslave, inducono l’autorità militare a vietare le manifestazioni di odio etnico, mentre viene pubblicato il documento in italiano e tedesco, trovato in tasca ad uno dei feriti, Mascia Augusto, da cui risulta che lo stesso, con il grado di sottotenente, aveva combattuto a fianco della truppe naziste. In seguito a ciò, in un editoriale del 6 maggio, il giornale si sente il dovere di puntualizzare: sacri sono l’amore per la propria lingua materna, il culto per la memoria degli avi, lo studio del pensiero antico e recente dei propri connazionali.
L’8 maggio viene data notizia della costituzione della Commissione mista italo-slovena per l’annona ed il giorno 9 la municipalità triestina riceve la visita del presidente del consiglio del governo della Slovenia inserita nell’Unione jugoslava. Vengono anche costituiti ufficialmente i Sindacati unici per le varie categorie di lavoratori.
Il 12 maggio entra il funzione il CEAIS (Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno), con otto membri italiani e cinque sloveni, a cui l’autorità militare cede i poteri della municipalità, con una rapidità di tempi obiettivamente ammirevole. Sono bastati solo 12 giorni dalla fine degli eventi bellici per ripristinare l’amministrazione civile. Gli angloamericani impiegheranno alcuni mesi.
Del CEAIS fanno parte otto fra partiti ed associazioni, mentre il PSI preferisce rimanere, nello stesso, come osservatore. Intanto molti sono i segnali del ritorno alla normalità in tutti i settori della vita: si dà conto delle modalità di distribuzione del latte a Muggia, e sul giornale ricompare, accanto ai necrologi a pagamento, anche la pubblicità.
Si crea una commissione tecnica per l’attività industriale e si aboliscono con regolare ordinanza, le leggi fasciste sulla razza; si pubblicano i nuovi orari dei programmi radio e si svolge una partita di calcio tra giovani triestini e soldati scozzesi.
Il comitato regionale di liberazione tiene a Trieste la sua prima seduta plenaria, mentre, progressivamente, il coprifuoco che il 1° maggio era stato fissato alle ore 18, viene spostato, in poche settimane, alla mezzanotte. Il 18 maggio a tutta pagina viene data notizia della tenuta assemblea della Consulta cittadina e si regola il commercio di vari prodotti: patate, olii, latte, combustibile, sigarette, vini. Il 21 maggio riapre il teatro lirico con la “Carmen”, seguita subito dal “Rigoletto” e poi dalla “Lucia di Lammermoor”, mentre il 24 maggio gli industriali triestini vanno in delegazione a Lubiana. Si ha tempo, in Comune, anche di festeggiare il genetliaco di Tito.
Il 25 maggio, in un edificio di fronte alla Villa Segrè (dove aveva sede il Comando del II settore cittadino), sede di una caserma di garibaldini, scoppia una bomba con morti e feriti. È il nuovo clima, creato dall’atteggiamento antislavo assunto dal generale Alexander, a cui il governo jugoslavo replica puntualmente. Ma ormai appare sempre più chiaro che la volontà degli alleati, nel silenzio di Stalin è perché Tito si ritiri in là di qualche chilometro e lasci la città.
L’8 giugno il giornale, con una nota di congedo piena di lirismo e di dignità, cessa le pubblicazioni.

1) IL COLONNELLO PESCATORE
Tra le “vittime” del tutto sconosciute della pregiudiziale anticomunista ed antislava di Trieste, vi è, nel 1946, anche il colonnello Pescatore. Chi era? Di lui parla più volte de Henriquez nei suoi diari e lo fa sempre con molta simpatia e solidarietà, dato che cercò anche di aiutarlo nelle sue assurde e paradossali vicende. Il suddetto colonnello era un ufficiale di amministrazione che, durante l’occupazione tedesca della città, aveva prestato servizio presso il Distretto militare, alle dipendenze del generale collaborazionista Esposito. Uno di quelli di Salò, dunque. Il 1° maggio, all’arrivo degli Jugoslavi, mentre tutti o quasi fuggivano e si sbandavano, egli si pose un problema, innanzitutto di coscienza. Il suo ufficio aveva, tra l’altro, il compito di provvedere a preparare le pratiche mensili per il pagamento delle pensioni di anzianità dei militari in congedo, alle indennità di sussidio per le vedove e gli orfani di guerra. Quale sarebbe stato il destino di tutti costoro se anche i suoi dipendenti se ne fossero andati? Convocò gli uomini e tenne loro questo discorso: non abbiamo commesso, noi dell’amministrazione, reati e crimini durante il periodo nazista, noi rimaniamo qui per svolgere il nostro compito di sempre presso il Distretto militare, per non lasciare morire di fame i vecchi, gli orfani e le vedove che vivevano dei sussidi loro erogati. Tra l’altro, allora, nessuno poteva assolutamente prevedere che il periodo di gestione jugoslava del potere a Trieste sarebbe stato così breve.
Rimasero 18 militari alle sue dipendenze. Il loro colleghi jugoslavi capirono il problema e li lasciarono al loro posto con un ufficiale di collegamento del IX Korpus presso il loro ufficio, come è normale che accada in simili casi. Nessuno chiese loro conto dei precedenti collaborazionisti, nessuno li “infoibò” o “deportò”. Quando giunsero gli angloamericani, essi continuarono ancora a lavorare presso il Distretto, così come avevano fatto con i germanici, e poi con gli jugoslavi, in base alle leggi internazionali di guerra; ma le associazioni nazionalistiche che proliferavano in città foraggiate dal governo di Roma, e che nulla avevano avuto da ridire a proposito di italianità allorché questi soldati avevano operato alle dipendenze del Gauleiter nazista Rainer, ora si dichiararono scandalizzati e protestarono presso gli alleati: come si poteva lasciare il Distretto in mano a chi aveva “lordato la divisa” collaborando con i “titini”? La cosa durò fino al marzo 1946, con attacchi subdoli e velenosi, fino a che la polizia militare alleata non arrestò il colonnello ed i 18 dipendenti. Perché? Per avere collaborato con i “titini”? Nossignore, naturalmente, e del resto la cosa sarebbe stata giuridicamente, oltre che politicamente, molto problematica da proporsi, ma per la loro attività prestata sotto l’autorità tedesca! Fu, ovviamente, una scusa volgare posta in essere per tacitare i neo-fascisti e per alimentare a livello subliminale, la nascente guerra fredda. Fu così che il colonnello ed i suoi uomini furono internati in un campo di rieducazione per fascisti fanatici in Toscana, con grave rischio per la loro stessa incolumità fisica; i fascisti autentici ivi detenuti, infatti, presero subito le distanze da questi “filo-comunisti” e li emarginarono. I militari furono comunque ben presto liberati e chiamati a Roma presso il Ministero, dove fu loro fatto questo discorso: nei loro confronti non veniva rivolta alcuna accusa, ma, dati i trascorsi “titini”, per motivi di opportunità politica essi sarebbero rimasti in servizio fino al limite di età a stipendio pieno, ma con il divieto di indossare la divisa e di frequentare le caserme.
Ognuno poté scegliersi un distretto militare di gradimento e qui furono trasferiti. Quasi tutti i sottoposti di Pescatore furono ben lieti di questa insperata fortuna che era loro capitata, ma il colonnello, che aveva altre aspirazioni ed altri principi etici, rimase molto male per questa ingiustizia che pose anticipatamente fine di fatto, se non di diritto, alla sua carriera. Nei suoi confronti gli angloamericani si comportarono in modo molto peggiore degli jugoslavi, che avevano invece rispettato la lealtà della sua scelta.

2) I SOLDI DEI NAZISTI.
Quando il 1° maggio 1945 le truppe jugoslave liberarono la città di Trieste dai nazisti, delle stesse facevano parte numerosi triestini, sia di lingua slovena, sia di lingua italiana. Uno di questi “reduci”, vissuto in città fino a non molti anni fa raccontava questo aneddoto: dopo la resa dei tedeschi egli fu tra coloro che entrarono nel palazzo del governatorato nazista, l’attuale palazzo di giustizia. Trovarono tra l’altro grossi rotoli di banconote italiane, che i tedeschi avevano abbandonato. Erano fatti in carta filigranata, quindi, da questo punto di vista, perfettamente “legali”, ma non provenivano dall’istituto di emissione: i tedeschi le stampavano “in proprio” con materiale autentico, e le distribuivano con larghezza ai loro reparti in Italia, i quali non avevano, così facendo, alcun problema a pagare quello che acquistavano. La cosa trova conferma anche da altre testimonianze triestine. Le autorità militari jugoslave fecero immediatamente bruciare quelle banconote, e la cosa dispiacque molto ai soldati che le avevano trovate; il nostro, in particolare, ancora negli anni recenti, si innervosiva contro i suoi superiori nel ricordare quello “scempio”: ma come, erano soldi “buoni”, gli stessi che usavano i triestini, e loro li bruciavano? È una cosa che al vecchio triestino che aveva combattuto con Tito, non è mai andata giù, che non è mai riuscito a capire, fino alla fine. Omettiamo il nome di questo testimone per rispettare la sua volontà di non essere collegato a questa vicenda col proprio nome.

3) IL COMITATO ED IL CONSIGLIO.
Dal 1° maggio 1945, con la città controllata dalle truppe jugoslave, si costituì presso l’Amministrazione comunale di Trieste prima un Comitato esecutivo e poi un Consiglio di Liberazione, che svolsero l’attività amministrativa. Dunque nessuna soluzione di continuità, neanche giuridica, con l’amministrazione precedente da questo punto di vista. Poiché non esiste nessun alto ufficiale accessibile che ne chiarisca gli effetti giuridici, l’esatta composizione, le finalità e le funzioni, tali organi, che pure operarono al posto della vecchia giunta collaborazionista di Pagnini, rimangono indefiniti, quasi fossero semplici situazioni di fatto. Si trattava invece della legittima autorità civica dell’epoca. Durante i 42 giorni, tali organismi si riunirono sette volte ed emanarono 21 delibere, che venivano predisposte dai funzionari responsabili dei singoli settori dell’amministrazione comunale, tutti confermati nei loro incarichi (neanche questi, dunque, “infoibati” o deportati) e firmate dal presidente del Comitato esecutivo o del Consiglio di Liberazione. Le delibere stesse diventavano immediatamente esecutive in mancanza di organi superiori o di controllo, che normalmente avallano le stesse in situazioni di non eccezionalità.
La stessa cosa accadrà anche dopo il 12 giugno con l’amministrazione militare alleata angloamericana.
La prima delibera porta la data del 17 maggio ed ha per oggetto: “Revoca della licenza comunale del servizio di autovettura di piazza a Loy Mauro, ed assegnazione della stessa alla vedova Loy Maria”.
L’ultima delle delibere “titine”, invece, la n. 21, tratta della pensione vedovile assegnata a Zorzini Antonia. Tutte le altre avevano per oggetto argomenti della più assoluta normalità: pensioni, loculi cimiteriali, sgravi d’imposta, compensi a dipendenti e così via. Firmatari delle suddette delibere furono prima Štoka e poi Rudi Ursič, facenti funzioni di sindaco in quella Amministrazione provvisoria. Ma non solo: poiché il podestà Pagnini aveva ritenuto di dover deliberare con ritmo frenetico fino al 29 aprile, mentre tutto attorno crollava, il presidente Štoka ritenne di dovere controfirmare e rendere così esecutive decine di delibere che ancora erano in sospeso, e così fu assicurata per i cittadini la continuità della gestione amministrativa dal periodo nazista a quello democratico. Una continuità che un fanatismo cieco si ostina inutilmente a negare. Di tutto questo aspetto di normalità dei 42 giorni “titini” infatti, a Trieste nessuno parla, come se vi fosse stato, in città, un regime di terrore totale. Ciò non risulta affatto dalla documentazione ufficiale rimasta, purché la si voglia esaminare con obiettività.

ARRIVANO I NOSTRI.
Non avevano certo gli stivali a speroni ed i cappellacci da cow boys, ma l’essenziale c’era, e cioè il senso di arroganza, il disprezzo verso gli altri, tutto ciò insomma che ha fatto odiare da tutti gli altri popoli prima gli inglesi e poi i loro eredi statunitensi.
Proviamo a vedere infatti cosa accadde esattamente il 12 giugno, quando gli uomini di Alexander, cioè del colonnello Bowman, sostituirono con un regolare passaggio di consegne fra alleati (anche qui tutto nella norma dunque), le truppe jugoslave.
Il primo documento della nuova amministrazione esclusivamente militare alleata (ribadiamo qui che, contrariamente a quanto avevano fatto a Trieste i germanici prima e gli jugoslavi poi, i quali subito avevano creato un potere civile, la municipalità civile cittadina fu, dagli angloamericani, autorizzata solo a settembre inoltrato) il primo documento alleato dunque fu il proclama n. 1 a firma Alexander, il generale cioè che sollevava in Africa le risate e l’ironia di Churchill per la sua boria e per il suo esagerato esibizionismo. È uno di quei documenti tronfi ed arroganti con i quali i militari inglesi (ma non hanno davvero l’esclusiva in questo campo!) sanno rendersi da sempre altamente antipatici. Dopo aver dichiarato di assumere tutto il potere nella città liberata dai nazisti (viene quindi del tutto omessa la parte riguardante l’entrata in città delle truppe jugoslave!) Alexander si esprime con estrema chiarezza nei confronti dei cittadini di Trieste. In sostanza ultima ecco qual è il messaggio che lancia agli stessi: qui comandiamo noi, ed intendiamo esercitare tutto il potere nella maniera più totale come si conviene ad un esercito vincitore ed occupante. Voi dovete fare quello che vi ordiniamo e senza discutere, altrimenti ne pagherete le conseguenze davanti ai Tribunali militari alleati: infatti con questo proclama venivano istituiti anche i Tribunali militari alleati. A capo del Comune fu posto un ufficiale inglese, a cui i capi ufficio dovevano rendere conto e che doveva avallare tutti gli atti affinché divenissero esecutivi.
Veniva poi elencata una lunga serie di comportamenti illegali di competenza delle Corti militari alleate di cui sopra: proviamo ora a vederne qualcuno in sintesi, e tra i più significativi tra la numerosissima casistica che veniva ipotizzata. Il comma 21 prevedeva la Corte marziale con possibilità anche di condanna a morte per “chiunque inciti all’insurrezione contro l’autorità militare occupante”. Ci chiediamo qui cosa dunque avrebbero fatto gli angloamericani se i triestini avessero inscenato contro di loro manifestazioni ostili del tipo di quella che fu posta in essere contro l’autorità jugoslava il 5 maggio, non appena la città era stata liberata. Conviene ricordare a questo proposito, che il 5 maggio la vicinissima Slovenia era ancora in gran parte occupata da truppe tedesche in armi e in guerra contro gli jugoslavi: si poteva in alcun modo escludersi che costoro, nel ripiegare verso il confine austriaco, decidessero di dirigersi ancora su Trieste? La guerra era ancora in corso e combattimenti si svolgevano ancora in città. A voler guardare le cose in maniera assolutamente obiettiva, la repressione jugoslava, inevitabile in quella circostanza, non fu affatto eccessiva.
Ricordiamo inoltre che durante i 42 giorni operò in città il IV CVL, costituito da elementi della ex Brigata Venezia Giulia riorganizzatasi proprio in funzione antijugoslava: esso operò con volantini, scritte murali, trasmissioni radio e varie missioni, anche fuori Trieste, incitanti i triestini alla ribellione; ma furono anche compiuti atti ostili concreti, come attentati dinamitardi e atti di intimidazione, contro i cittadini che operavano con la nuova e legittima autorità civile, insediata da chi aveva liberato la città dai tedeschi (atti questi rivendicati dagli stessi “diari” del CVL clandestino dei 42 giorni, sull’attività del quale vi rimandiamo al dossier “Luci ed ombre del CLN triestino in questo sito).
Il contenuto del comma 21 della legge penale di Alexander, comunque avrebbe autorizzato pienamente ogni repressione militare fino alle condanne a morte (che non vi furono) per ogni comportamento simile a quello dei manifestanti del 5 maggio.
Ciò che fecero le truppe jugoslave nella circostanza avrebbe quindi dovuto avere il totale avallo di Alexander. Il comma 30 prevedeva la corte marziale, per “chiunque produca o diffonda materiali irriguardosi verso le truppe alleate”. Cosa dunque dire della scritte antijugoslave e dei volantini che furono diffusi in tutti i 42 giorni?
Il comma 31 poi colpisce davanti agli stessi tribunali chiunque “pronunci discorsi e parole ostili contro gli occupanti” mentre il 33 vieta, sotto gravissime pene, “ogni manifestazione non autorizzata di qualsiasi genere”.
Ma non basta: il comma 38 vieta che si spargano “faziosità per allarmare la popolazione”. Quante voci, risultanti poi artificiosamente false, furono spese ad arte contro gli jugoslavi durante i 42 giorni, e poi anche sotto l’amministrazione angloamericana? La notizia falsa dell’uccisione ed infoibamento di militari neozelandesi continua ancora oggi, pervicacemente, benché lo stesso governo neozelandese l’abbia ufficialmente e con documento scritto e reso pubblico, dichiarata priva di ogni fondamento, come testimonia una lettera pubblicata sul periodico di Cividale “Novi Matajur” del 25/4/96).
Su questi argomenti i diari di Diego de Henriquez riportano un accurato florilegio al di là di ogni dubbio, e con ampio dettaglio, anche se nessuno storico ufficiale né alcun opinionista di regime ne tiene conto.
Il comma 42 poi vieta che si disobbedisca in qualsiasi modo a qualsiasi soldato alleato ed il comma 43 vieta ogni forma anche indiretta di fascismo (ma senza ottenere, a Trieste, grande risultato, dato che le organizzazioni neofasciste armate qui erano pagate direttamente dal governo di Roma).
Infine, per concludere, il comma 45 parla di qualsiasi altro atto, non previsto dai precedenti commi, che comunque possa danneggiare il buon ordine della vita nel territorio occupato; una particolare norma giuridica “aperta” dunque, che con un po’ di buona volontà avrebbe potuto mandare nelle galere militari triestine qualsiasi cittadino: ubriachi che schiamazzano, prostitute, ragazzi che schiamazzano, e così via.
Il 14 giugno furono sciolti tutti i corpi militari e di polizia, anche la Difesa popolare.

CONCLUSIONE.
Vogliamo ora, al termine di questo discorso, provare a trarre delle conclusioni circa il comportamento realmente tenuto dalle autorità jugoslave durante il periodo dei 42 giorni a Trieste, partendo da dati di fatto e non da pregiudizi e preconcetti propagandistici utili al clima di “guerra fredda”, provando a ragionare, documenti alla mano, e non ad inveire o recriminare in base ad animosità irrazionali.
Appare quindi chiaro come, in precedenza, sia stata posta in essere verso le popolazioni slave del confine italiano un’opera addirittura feroce di persecuzione e di snazionalizzazione forzata, che risale all’epoca pre-fascista. Non mancano in proposito documenti e pubblicazioni significative, un breve elenco delle quali pubblichiamo in Appendice a questo scritto.
Se si guarda in progressione temporale la carta geografica di questa regione, si nota come dal 1866 al 1945 sia stato il confine italiano a spingersi verso est in maniera abnorme, fino ad includere l’assurda e paradossale “provincia di Lubiana”, occupata senza dichiarazione di guerra, e non il confine jugoslavo a spingersi ad ovest. È difficile, dunque, in base a questi elementi parlare di tendenza all’espansionismo slavo; è inevitabile invece, se si vuole essere obiettivi, parlare di espansionismo italiano in funzione anti-slava verso est, il che ha provocato una reazione concretizzatasi, nel 1945, nella pretesa jugoslava di includere, nello stato socialista che si stava formando, tutte le zone etnicamente miste ad est dell’Isonzo.
Si tratta, naturalmente, di drammi storici, di azioni e reazioni in cui è possibile che i ruoli si invertano; e così è stato, appunto, in questa nostra vicenda, ma, a voler tirare ora le somme dei torti e delle ragioni, è difficile negare che i torti storici, da parte italiana, siano stati di entità davvero notevole. Il tutto però, ribadiamo, va necessariamente contestualizzato in una realtà storica, se si vuole davvero comprenderne le cause. Se poi ci limitiamo all’ultima fase 1940-1945, al periodo cioè della guerra, vediamo come all’invasione italo-germanica della Jugoslavia (invasione che avvenne prima di qualunque “occupazione” jugoslava di Trieste, e non viceversa!) abbia seguito, da parte italiana, un’attività repressiva contro le popolazioni civili slovene fatta di massacri e deportazioni, che va obiettivamente inquadrata nella categoria dei crimini di guerra che oggi il diritto internazionale ha codificato.
L’Italia però ha protetto i suoi criminali di guerra: anche di questo parla, e molto, de Henriquez, nei suoi diari che nessuno storico vuole ancora prendere in esame. Se azioni di vendetta e di ritorsione sono state poste in essere nel 1945, ad opera di singoli appartenenti alle forze armate jugoslave (cosa certo molto triste e spiacevole), oltre alle condanne comminate nei tribunali jugoslavi, non si può però ignorare che esse sono avvenute solo dopo le azioni criminali dell’esercito italiano ordinate dal governo fascista, forse anche come ritorsione alle stesse, benché non solo come tali. Per questo riteniamo che l’analisi di quegli eventi richiederebbe il massimo di obiettività storica; al contrario essi vengono invece analizzati con il massimo di animosità acritica possibile, e finché a far ciò sono uomini politici che fanno il loro mestiere che prescinde dalle categorie morali (secondo il noto giudizio di Benedetto Croce), la cosa è opinabile ma accettabile. Il problema è quando a fare questo sono anche storici di professione, i quali sarebbero invece deontologicamente tenuti al dubbio critico: in tal caso essi semplicemente abdicano alla loro funzione scientifica per tornare alle categorie crociane, e vanno di conseguenza inseriti nella categoria del politico e non della scientificità.
Dopo che gli italiani avevano asservito Lubiana e l’avevano posta sotto occupazione militare, gli jugoslavi tentarono in modo analogo, imitandoli (avendo vinto la guerra) di incorporare e rendere Trieste jugoslava, ma abbandonarono tale progetto in seguito a trattative internazionali con pieno rispetto delle regole della politica estera e della diplomazia, e ciò nonostante che, per cacciare via i tedeschi da questa città (dove, secondo de Henriquez, una buona metà dei triestini aveva in un modo o nell’altro collaborato con i nazisti) il “IX Korpus” fosse giunto ad Opicina con gli organici addirittura dimezzati per la durezza dei combattimenti. Riteniamo che un minimo di riconoscenza per quelle perdite andrebbe concessa da parte di questa città.
Se scendiamo nel concreto, data l’ostilità con cui parte della popolazione triestina (un’altra parte numericamente meno consistente era favorevole agli jugoslavi) accolse gli jugoslavi, c’è da dire, sicuramente, che atti di particolare durezza non furono compiuti dagli stessi, benché comportamenti che gli angloamericani, come abbiamo visto, definirono poi “criminali” se rivolti contro di loro, fossero molto frequenti in città. Non si può dimenticare, del resto, che si usciva da una guerra orribile, iniziata dal fascismo (alleato con i nazisti) nella quale le colpe obiettive italiane erano molte e molto gravi.
Molto è stato detto e verrà ancora detto contro quella amministrazione dei 42 giorni, ma, al di là delle necessità propagandistiche nell’ambito della “guerra fredda”, se uno storico obiettivo vorrà scrivere di quel periodo dovrà, secondo me, concludere che fu una occupazione militare caratterizzata quindi in tal senso, in cui però gli elementi di tattica politica prevalsero (si potrà anche opinare che prevalsero strumentalmente, ma indubbiamente prevalsero) sullo spirito di violenza da parte degli occupanti. Le vendette che vi furono erano, purtroppo, ampiamente prevedibili, ma bisogna rilevare che la loro entità non corrisponde certamente a quanto dichiarato dai propagandisti antijugoslavi, come la ricerca seria va, alla fine, scoprendo, e rendendo pubblici i dati relativi.

La pubblicazione del presente breve studio ha richiesto la consultazione dei seguenti documenti:
– atti di segreteria generale ed atti di gabinetto presso l’Archivio Storico del Comune di Trieste – 1945 ;
– diari di Diego de Henriquez presso i Musei civici di Trieste, dal diario 1 al diario 50, dal diario 64 al diario 66 ed inoltre i diari 73, 172, 174, 195.

BIBLIOGRAFIA.

SUI CRIMINI DI GUERRA ITALIANI:
Pietro Brignoli, “Santa Messa per i miei fucilati”, Longanesi 1973 (riedizione in “Pagine di storia rimosse”, a cura di Enrico Vigna, Edizioni Arterigere 2005)
Tone Ferenc, “La provincia italiana di Lubiana”, IFSML 1994.
Alessandra Kersevan, “Gonars. Un campo di concentramento fascista”, KappaVu, 2003.
Giuseppe Piemontese, “Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana”, Lubiana 1946 (riedizione nel CD-Rom “La storia non riconosciuta” a cura della redazione de “La Nuova Alabarda” 2002).
SUL CLN TRIESTINO:
AA.VV., “I cattolici triestini nella Resistenza”, Del Bianco, 1960.
Roberto Spazzali, “… l’Italia chiamò”, Libreria Editrice Goriziana 2003.
SUL DOPOGUERRA A TRIESTE E LE “FOIBE”:
AA.VV., “Nazionalismo e neofascismo al confine orientale”, IRSMLT 1976.
Claudia Cernigoi, “Operazione foibe tra storia e mito”, Kappavu 2005.
Ennio Maserati, “L’occupazione jugoslava di Trieste”, Del Bianco 1966.
Roberto Spazzali, “Foibe. Un dibattito ancora aperto”, ed. Lega Nazionale 1990.
UAIS, “Trieste nella lotta per la democrazia”, Trieste, 1945 (ristampa a cura della redazione de “La Nuova Alabarda” 2006).
Vi rimandiamo infine anche all’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (IRSMLT) e quello della Sezione storica (Odsek za zgodovino) della Biblioteca nazionale degli studi (Narodna in Študijska Knjižnica) di Trieste.

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