IN ODIUM FIDEI: IL MARTIRIO DI DON BONIFACIO

IN ODIUM FIDEI: IL MARTIRIO DI DON BONIFACIO.

Il 4 ottobre 2008 si è svolta a Trieste la beatificazione di don Francesco Bonifacio, sacerdote istriano scomparso in circostanze misteriose nel 1946. Diciamo “scomparso” e non “morto”, perché dato che il suo corpo non è mai stato trovato non è a tutt’oggi possibile determinare la data della morte.

Ma perché è stata decisa la beatificazione di don Bonifacio? Le fonti “ufficiali” (nella fattispecie una nota Ansa del 4/8/08, che si basa, supponiamo, su comunicazioni degli organi ecclesiastici) affermano che don Bonifacio, fu ucciso “in odio alla fede”, che fu “catturato dai titini a Villa Gardossi” e “finì in una delle cavità del Carso”; che “secondo tardive testimonianze” prima di essere ucciso “sarebbe stato spogliato, deriso, lapidato e forse anche accoltellato e fucilato”.

Riprendiamo ora un articolo di Sergio Paroni dal “Piccolo” del 12/9/96. Il giornalista spiega che la causa di beatificazione di don Bonifacio fu avviata dal vescovo Antonio Santin nel 1957 presso la curia triestina. Santin considerava don Bonifacio “l’onore del nostro clero”. Ma, scrive Paroni, il procedimento si arenò “per la diffusa omertà di coloro che avrebbero potuto testimoniare”. Venne ripreso nel 1971 “grazie all’impulso dato da don Eugenio Ravignani, istriano come don Bonifacio” (Ravignani è l’attuale vescovo di Trieste).

Il vescovo monsignor Bellomi avrebbe deciso di riprendere in mano la causa e raccomandò, prima di morire (Bellomi è deceduto nel 1996) a monsignor Giuseppe Rocco di portare a termine l’istruttoria. Rocco è (o almeno lo era quando Paroni scrisse l’articolo) vicepresidente del tribunale diocesano competente per le cause di beatificazione, di cui il presidente è don Ettore Malnati (già segretario particolare di Santin e suo biografo), e del quale fanno parte due “notai”: un diacono ed una laica.

Il compito di questo tribunale è di valutare le testimonianze, che devono essere: “attendibili ed autorevoli per essere efficacemente accolte”. Alla fine dell’istruttoria il tribunale diocesano deve inviare il materiale raccolto alla Congregazione vaticana per la causa dei santi, “cui spetta l’esame finale”. Paroni aggiunge che dal materiale fino allora raccolto emerge che “don Bonifacio fu eliminato in odio alla fede, ovvero che è un martire, che quasi certamente venne infoibato poiché non se n’è più rinvenuta traccia” (conclusione quanto meno opinabile, come se tutti coloro che scompaiono senza lasciare traccia finissero in una foiba). E conclude osservando che la causa di beatificazione di don Bonifacio poteva avere da quel momento probabilità di giungere a buon fine, dato che pochi giorni prima papa Giovanni Paolo II aveva definito “martiri del nostro secolo” i cristiani “vittime dei regimi comunisti”: questo perché “per i martiri non c’è nemmeno l’onere di reperire la prova di un miracolo per la loro elevazione agli altari”.

Alcuni anni or sono il giornalista triestino Ranieri Ponis ha redatto uno studio dal titolo “In odium fidei” (ed. Zenit Trieste 1999), nel quale tratta dei sacerdoti uccisi dai “comunisti slavi”. Ecco cosa scrive in merito alla vicenda di don Bonifacio.

“Sono le 16 dell’11 settembre 1946 quando don Francesco Bonifacio lascia Villa Gardossi ed a piedi si avvia verso Peroi (…) prosegue per Grisignana (…) deve incontrarsi con il parroco Giuseppe Rocco (che era anche il suo confessore: è forse lo stesso “monsignor Giuseppe Rocco” del tribunale diocesano? n.d.a.) (…) don Rocco lo accompagna fino al cimitero (…) In lontananza si notano due guardie popolari (…). Don Francesco arriva sulla strada di Radani, qui è ferma un’automobile, nascosta dietro un cespuglio (…) vi sono testimoni oculari. Che vedono due avvicinarsi a don Bonifacio e costringerlo a salire sull’automobile: viene fatto sedere vicino all’autista. Questi indossa un paio di calzoni della divisa, ed è il komandir (…) si chiama Rak, è di origine dalmata (…) e abita a quel tempo a Umago (…) dietro siede Pietro A., tuttora vivente e abitante nel Pordenonese. Percorrono qualche chilometro, poi prendono a bordo altri due: Giordano N. e Antonio G.. A questo punto le ipotesi sono tante, le convinzioni forse nessuna”.

Frase interessante, questa: le ipotesi sono tante, le convinzioni forse nessuna. Eppure è proprio su queste tante ipotesi e forse nessuna convinzione che si è deciso di beatificare don Bonifacio.

È anche degno di nota che Ponis indica solo il nome e l’iniziale del cognome di due degli “ipotetici” rapitori. Perché? Proseguiamo con la lettura: Ponis racconta varie “ipotesi”, tra le quali la descrizione dello sgozzamento di don Bonifacio che sarebbe stato ucciso perché si era messo a pregare. Ma sono solo “ipotesi”, appunto.

Anche relativamente alla sepoltura vi sono varie “ipotesi”: alcune indicano don Bonifacio sepolto presso Montona, altre nella Valle del Quieto, oppure in zona Peroi (vi consigliamo di procurarvi una cartina della zona per valutare le distanze).

Ponis aggiunge che il fratello del sacerdote, Giovanni Bonifacio, avrebbe fatto confessare a Giordano N. i fatti, ma che questo non voleva parlare per paura.

Poi riferisce l’ipotesi che un “processo farsa” si sarebbe svolto nella casa della famiglia Muscovich a Bollara (tra Castagna e Grisignana) e che alla fine, come racconterebbe una signora (che all’epoca era bambina e della quale Ponis non fa il nome), don Bonifacio sarebbe stato costretto a camminare scalzo fino alla foiba di Martines nel villaggio di Dubzi.

Altra “ipotesi”: dopo il “processo farsa” don Bonifacio sarebbe stato colpito al punto da perdere i sensi, caricato su un carretto e poi portato alla foiba di Martines, dove Ponis dice di essersi recato. Lì una donna di nome Veneranda, che nel 1946 avrebbe avuto vent’anni, avrebbe trovato il fazzoletto di lino con le iniziali di don Bonifacio sull’erba, una mattina dopo avere sentito delle urla durante la notte.

Interessante però che il testo di Ponis non tenga conto delle testimonianze citate nel volumetto di Sergio Galimberti, pubblicato l’anno prima, nel 1998, in occasione della “solenne sessione conclusiva del processo diocesano per la canonizzazione di don Bonifacio”.

In esso sono riportati i nomi di sette testimoni, che hanno tutti più o meno dichiarato la stessa cosa, e cioè che l’11 settembre 1946, mentre usciva dal cimitero di Grisignana, don Bonifacio fu “avvicinato” da alcune “guardie popolari”, o “soldati della polizia jugoslava”, con i quali si sarebbe allontanato. È il fratello Giovanni a dire che “poco dopo l’arresto” (ma anche l’arresto è una “ipotesi”, dato che le testimonianze non accennano ad atti di coercizione nei confronti del sacerdote: “due soldati precedono don Francesco che li segue libero”, ha dichiarato un teste) il gruppetto e il prete “spariscono nel bosco”. E teniamo presente che Giovanni Bonifacio non era presente ai fatti, si trovava in casa ad attendere il ritorno del fratello.

Vi è dunque una versione che vuole don Bonifacio avvicinato da non meglio identificati “titini” e condotto via a piedi; un’altra che parla di un sequestro in piena regola, per il quale sarebbe stata usata un’automobile. Quale è quella accolta dalla Congregazione vaticana?

Nei giorni successivi alla scomparsa del prete i suoi familiari chiedono notizie al comando di polizia di Grisignana, alla Difesa popolare di Buie, al comando dell’OZNA ma tutte le autorità interpellate risposero che non vi era alcun ordine di arresto per don Bonifacio e che egli non si trovava incarcerato. Queste risposte, del tutto logiche se don Bonifacio non era stato arrestato dalle autorità, vengono definite nel testo: “vaghe, reticenti, contraddittorie” ed anche “evasive”.

Poi sono elencate le “alternative prospettate sulle modalità dell’uccisione”: “eliminazione generica (sic), torture, impiccagione, strangolamento, percosse, lapidazione, decapitazione, omicidio con arma bianca o da fuoco”. Mancano solo la sedia elettrica e l’iniezione letale, viene da osservare. Il luogo è “incerto”, scrive il testo: “tra Grisignana e Villa Gardossi, Radani, San Vito, bosco di Levade, Gradina di Portole, Carso di Piemonte” (e qui vi rinviamo nuovamente alla cartina); per quanto concerne i “mandanti” si è ancora più vaghi: “Autorità jugoslava di Fiume, Abbazia, Buie; Comitato popolare di Villa Gardossi, Comitato popolare distrettuale di Buie, comunisti italiani di Buie, attivisti e militanti slavo-comunisti, ecc.”. I “presunti esecutori” sarebbero “tre, quattro o forse più”; il “destino del cadavere”, infine, sarebbe “incerto: cremazione (cimitero di San Vito), infoibamento (qualche voragine della zona, foiba di Martines a Grisignana, foiba di Pisino), sepoltura (Santo Stefano, bosco di Levade, San Bortolo di Montona, San Pancrazio di Montona, San Vito di Grisignana, linea di confine tra Zona B e Jugoslavia”).

In sostanza: non si sa come don Bonifacio sia morto (a rigor di logica non si sa neppure se sia morto), né chi l’avrebbe ucciso e per quale motivo, però la conclusione del processo diocesano dà per assodato che sia stato ucciso in odium fidei.

Nello stesso libretto troviamo anche la versione dell’arresto di don Bonifacio riportata da Ponis, che sarebbe stata resa da un “sedicente testimone oculare”, cioè un “attivista comunista” che, “a pagamento”, avrebbe fatto ad un “regista” (del quale, tanto per cambiare, non viene fatto il nome) una “narrazione romanzata destinata alla realizzazione di un soggetto teatrale basato sulle ultime ore di don Francesco Bonifacio”. Questo testimone era stato rinchiuso assieme al suo “compagno di lotta” (quello con cui avrebbe arrestato il prete) in carcere ad Albona nel novembre 1946, ed avrebbe “confermato ad un suo carceriere” che “il prete di Crassizza” (cioè Villa Gardossi) sarebbe stato “finito con delle coltellate alla gola” e non gli sarebbe stata “staccata la testa”, come invece asseriva il suo “compagno”. Ammesso che questo racconto sia attendibile, potrebbe significare che i due erano detenuti proprio perché avevano assassinato il prete (quindi non per ordini superiori, ma per criminalità comune) e che il “testimone oculare” (stranamente anonimo, mentre il suo “compagno” viene indicato come Enrico Clarich, nome che nel testo di Ponis non compare) abbia poi deciso di infiorettare il racconto con le motivazioni politiche ed i particolari cruenti, per vendere poi con più profitto la sua “storia” al regista.

Leggendo la biografia di don Bonifacio ci hanno colpito alcune cose. Innanzitutto che il sacerdote, che durante la guerra aveva operato sia per salvare partigiani e civili, sia militari nazifascisti, scriveva nel suo diario di non aver paura di essere ucciso od aggredito, nonostante ciò che affermano i suoi biografi. Che aveva fisso il pensiero della morte, ma questo, piuttosto che essere attribuibile alla paura di cadere vittima “degli slavo-comunisti”, può dipendere dal fatto che fin da ragazzo soffriva di crisi di asma piuttosto gravi, che non gli permettevano una vita del tutto normale.

Ma quello che più ci sconcerta è il motivo per cui si è deciso che don Bonifacio è morto in odium fidei: in sintesi, dato che è scomparso ed il suo cadavere non è stato trovato è stato sicuramente infoibato perché esponente del clero cattolico.

Ora, mancando il corpo, vi sono tante altre ipotesi che si possono fare sulla scomparsa di una persona. Per voler prendere in esame tutte le possibilità, si può anche ipotizzare (dato che le ipotesi sono tante, come afferma Ranieri Ponis, ne aggiungiamo qualcuna anche noi) che il sacerdote si sia allontanato volontariamente e sia andato a vivere altrove con un’altra identità: ipotesi che tendiamo ad escludere dopo avere letto parti del suo diario, da cui esce una figura di religioso coerente. Ma potrebbe essere stato colto da amnesia ed essere andato da tutt’altra parte, morto chissà dove e quando; può avere avuto una crisi d’asma più grave delle altre, che gli è stata fatale, ed essere morto in un luogo dove il suo corpo è rimasto celato.

L’ipotesi però che a noi sembra la più probabile è che don Bonifacio sia caduto vittima di criminali comuni che, per derubarlo o per altro sconosciuto motivo, lo hanno ucciso e poi ne hanno occultato il cadavere. Questa ipotesi corrisponderebbe al racconto fatto all’anonimo regista, dove abbiamo due “testimoni oculari” dell’assassinio di don Bonifacio che si trovavano in carcere due mesi dopo la scomparsa del religioso. Perché nessuno ha pensato di fare una ricerca presso l’autorità giudiziaria di Fiume (presumibilmente quella competente per territorio, se i due erano in carcere ad Albona), neanche negli anni recenti?

Noi, da agnostici, riteniamo che gli affari religiosi debbano essere gestiti seriamente. Non si può fare santo (o beatificare, è lo stesso) chiunque o chicchessia senza un minimo di analisi della sua vita e delle modalità della sua morte. Non è una cosa seria, né è rispettosa di chi crede.

Soprattutto siamo dell’opinione che non si possono strumentalizzare la storia e le credenze religiose a scopi politici. Nella fattispecie, con la beatificazione di don Francesco Bonifacio (per il quale non vi è alcuna prova che sia stato ucciso in odium fidei), non si compie un atto religioso, ma si strumentalizza una tragedia (la scomparsa di un giovane sacerdote) per fare propaganda politica in funzione anticomunista.

In conclusione un breve appunto per una prossima ricerca storica: che in Jugoslavia sia stato impedito alla popolazione di professare qualsivoglia religione, a partire da quella cristiana, è una bufala bella e buona. Tanto per fare un esempio, ricordiamo che nel corso dei censimenti etnici era permesso dichiararsi islamici o musulmani, trasformando un credo religioso in una componente etnica (fattore che ha avuto poi il suo non indifferente peso nel corso del conflitto jugoslavo).

Della “persecuzione” dei sacerdoti in Jugoslavia parleremo quindi in un’altra occasione; in questa sede vogliamo solo dire che tra gli attivisti del Fronte di Liberazione jugoslavo vi erano anche molti sacerdoti, diversi dei quali ricoprirono addirittura dei ruoli di dirigenza. Del resto un partigiano giunto a Trieste ai primi di maggio 1945, mostrando un tatuaggio rappresentante Cristo che portava sul petto disse che lui credeva in Gesù perché “è stato il primo comunista” [1].

Claudia Cernigoi

settembre 2013

 


[1] Testimonianza di Fausto Franco, del CLN triestino, pubblicata sul “Piccolo” del 4/11/83.

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