INTERVISTA AD ARMANDO DIAN, ESULE ISTRIANO.

INTERVISTA AD ARMANDO DIAN, ESULE ISTRIANO.

Il signor Armando Dian, che oggi vive nelle Puglie, è stato profugo dall’Istria, ed ha cortesemente accettato di raccontarci la sua storia. Il racconto, orale, è stato raccolto e registrato da Francesco Radogna; Claudia Cernigoi ha curato la stesura del testo per renderlo più scorrevole, mantenendo però il senso ed i contenuti del medesimo.

Signor Dian, ci racconti un po’ la sua vita…

Io sono nato nel 1929 a Castelbaldo, in provincia di Padova, e un paio di anni dopo ci siamo trasferiti a Castelguglielmo in provincia di Rovigo; eravamo una famiglia numerosa e nel 1933 siamo andati in Istria, perché l’Opera Nazionale Combattenti assegnava ai reduci della Prima guerra mondiale dei terreni “bonificati” da coltivare: in Sardegna, a Littoria (oggi Latina) ed anche in Istria, nei dintorni di Pola. Quando siamo arrivati abbiamo già trovato alcune famiglie, pure di origine veneta, che avevano avuto quei terreni, ed in seguito ne sono arrivate altre (le famiglie Bolognesi e Mantovani, poi sono andate via e sono arrivate due famiglie Costella e la famiglia Cella).

Noi eravamo tutti contadini, avevamo 20 ettari da coltivare (per lavorare 20 ettari ci vuole una famiglia grande, noi eravamo in 15); eravamo 12 famiglie di italiani; nei dintorni gli altri erano tutti croati ma allora noi li chiamavamo semplicemente “slavi”. Eravamo nel comune di Altura (adesso Valtura) dove si parlava italiano; il comune più vicino era Iadreschi, a 5 chilometri da Pola. Noi eravamo circondati da slavi, Mussolini aveva tolto le scuole slave e loro erano costretti a parlare italiano anch’io imparato un po’ lo slavo ma ora non me lo ricordo più; non avevamo problemi con loro, sono brava gente, ti invitano, ti danno da mangiare, sono gente semplice, quando andavo a ballare con la mia amica di scuola e conoscevo altre ragazze, appena conosciuto una il fratello mi ha subito invitato a casa, a mangiare e bere: ma guai se sanno che li tradisci, allora si vendicano. Per esempio il mio amico Silvio, che è morto due anni fa, quando passavano gli slavi tirava loro i sassi e loro si sono vendicati, ma io gli avevo detto che non doveva tirargli le pietre.

A Pola e nei dintorni abbiamo vissuto tranquilli fino alla guerra, e poi la guerra era lontana, non avevamo problemi; anche se ero un ragazzo mi ricordo il 25 luglio del 1943, quando i garanti hanno fatto il colpo di stato perché avevano capito che non si poteva più vincere la guerra e così Badoglio, Graziani e gli altri hanno votato per destituire Mussolini, e poi mi ricordo anche l’armistizio un mese e mezzo dopo, quando lo abbiamo saputo eravamo tutti contenti. Un mio fratello che era militare a Roma è tornato a casa, mentre un altro mio fratello, che era Guardia alla Frontiera vicino a Fiume è stato catturato dai tedeschi, deportato in Germania e non è più tornato. I guai sono iniziati dopo l’8 settembre.

Com’era la situazione dopo l’8 settembre? Lei una volta ha detto, durante un’intervista che le hanno fatto per il Giorno del ricordo, che “noi coi partigiani avevamo un buon rapporto non c’era quella conflittualità che ora si dice”…

È vero, dopo l’8 settembre i partigiani cominciarono ad andare alla macchia; si sentiva parlare di foibe, ma da noi non è stato infoibato nessuno. Poi sono arrivati i tedeschi ed allora sono iniziati i problemi; i militari italiani erano in fuga e passavano davanti a casa nostra per andare nel bosco e sfuggire ai tedeschi, mia mamma faceva il pane per darlo a tutti e lo dava anche ad un tedesco che veniva spesso da noi, piangeva perché era contro la guerra.

Noi eravamo tutti sotto controllo, soprattutto la mia casa (vi abitavamo in due famiglie) che si trovava vicino al bosco, il nome di questo bosco è Magran, con cui confinava il nostro terreno e i tedeschi sospettavano che per questo noi aiutassimo i partigiani. Una domenica ero a pascolare le mucche e i tedeschi sono venuti a prendermi, hanno sparato alla cagna che abbaiava, mi hanno messo contro il muro col fucile puntato e quando è rientrato mio padre dalla Messa il comandante gli ha domandato se ero suo figlio, ed a quel punto mi hanno lasciato rientrare. Venivano continuamente a rovistare in casa, passavano ogni 15-20 giorni, una volta ci hanno portato via anche gli orologi della cresima. Erano i tedeschi quelli che davano problemi durante la guerra, i partigiani mai visti, anche se diversi miei amici sono andati con loro, ad un certo punto mi è venuta la tentazione di andare anch’io coi partigiani, almeno avrei saputo cosa dovevo fare.

Voglio raccontare due fatti. Una volta ero nella vigna e ho trovato due partigiani che si nascondevano, ho capito che avevano paura che io andassi a denunciarli perché volevano rubare l’uva, e ci siamo messi a parlare; mi hanno domandato se me la sentivo di andare a vedere se i cannoni della contraerea che c’erano in un fortino a San Daniele vicino a Pola erano funzionanti, ma io non sono riuscito ad andare, gliel’ho detto ma secondo me non gliene importava tanto, me lo avevano chiesto solo per giustificare il fatto che si trovavano nella mia vigna. È vero che una volta, nel 1944, sono venuti mentre lavoravamo la terra e hanno portato via gli animali dalla stalla, ci hanno lasciato due mucche da lavoro e una da latte e il toro, ma non hanno fatto nessuna violenza alle persone.

Invece una volta abbiamo visto, da lontano, che i partigiani avevano fermato il direttore dell’azienda agricola (Opera nazionale Francesco Rismondo) nei pressi di casa nostra; si chiamava Materazzo ed era fascista, e si è arrabbiato perché non siamo andati a difenderlo. Allora ha ordinato il rastrellamento del 16 giugno 1944, si è vendicato sulle famiglie che avevano le case più vicine al bosco. Da 4 famiglie non hanno portato via nessuno, ma delle altre 8 famiglie hanno portato via tutti gli uomini validi, hanno portato via mio padre e mio fratello, io mi sono salvato per miracolo, perché quando sono andati dentro casa c’era un fascista amico di mio fratello che mi ha fatto nascondere sotto un portico mentre portavano via i miei e un tedesco è passato veloce e non mi ha visto. Sono tornato in casa solo quando erano lontani.

I rastrellati li hanno poi mandati a Trieste, alla Risiera di San Sabba e poi in Germania. Era estate, era il tempo della mietitura e noi non avevamo più chi lavorasse, io avevo 15 anni e mio fratello 13, il nonno morì di crepacuore poco dopo, il 22 luglio e sono diventato io il capofamiglia. Ma ci si aiutava con le altre famiglie che erano rimaste.

Il figlio di questo Materazzo è stato quello che ha messo un cappio al collo di un mio amico, coetaneo, a Lavarigo: lo hanno impiccato perché lo avevano trovato col fucile, dormiva fuori casa perché aveva paura e lo hanno preso ed impiccato.

E dopo la liberazione?

Dopo gli slavi facevano sempre festa, canti, balli, io andavo a prendere il giornale alla domenica e sentivo che facevano festa nell’Arena di Pola; gli slavi per cantare hanno cori forti, una volta ero in campagna e ho sentito un forte coro, sono andato a vedere nel bosco e c’erano partigiani e civili che cantavano assieme. Non sono mai venuti a casa nostra, tranne una volta che è venuto uno, Mirko si chiamava, avevamo fatto amicizia, mio fratello suonava bene la fisarmonica e lui suonicchiava, così è salito in camera nostra per suonare la fisarmonica di mio fratello; ha posato sul letto il mitra ed io, curioso, sono andato a toccarlo ed è partita una raffica che ha perforato la testiera del letto, mia mamma era al piano di sotto ed ho avuto paura che si bucasse il pavimento, ma per fortuna è finita bene.

A maggio ’45 erano arrivate le truppe a Pola, poi sono arrivati gli inglesi, hanno diviso il territorio in Zona A e Zona B, noi eravamo lontano dal centro di Pola (la zona A comprendeva l’enclave di Pola passata, dopo il 12/6/45, sotto amministrazione angloamericana e l’attuale provincia di Trieste, mentre il resto dell’Istria era amministrato dagli Jugoslavi ed era denominato Zona B, n.d.r.) e quindi eravamo nella Zona B. Per entrare in città c’era un posto di blocco, i partigiani domandavano dove si andava e io dicevo che andavo da miei cugini, non c’era nessun problema. Una sera tornavo dopo essere stato al cinema e ci hanno portati al Comando per un controllo, ma abbiamo trovato una signora che mi conosceva e ci ha offerto da bere; la mamma e la zia invece le hanno trattenute un giorno per fare i controlli, perché non avevano il permesso scritto per passare da una zona all’altra; di solito c’erano sempre guardie di frontiera che le conoscevano e le lasciavano passare; quella volta le hanno trattenute un giorno.

Per quanto riguarda il lavoro, nella Zona B la terra era stata presa in gestione da un comitato, il comitato Kolic che della trebbiatura dava due terzi a noi che lavoravamo ed un terzo andava alla direzione. Io non posso parlare male degli slavi, si lavorava tutti assieme, noi avevamo i carri più belli e con questi trasportavamo la legna a casa loro, che poi ci preparavano il ben di Dio da mangiare; mio fratello ed io andavamo di domenica a lavorare la terra per una vecchietta e lei ci dava i soldini e poi delle cose di pasta all’uovo e vino, avevamo un buon rapporto.

Ma poi vi hanno cacciati via?

No, certo che no, non capisco perché si dica questo, i partigiani stessi mettevano in evidenza la fratellanza italo-jugoslava; a Pola quando si incontravano i croati, ti salutavano col pugno chiuso dicendo “viva la fratellanza italo-jugoslava!” (e qui lo declama alzando il pugno, n.d.r.); io non ho visto odio, mi pare impossibile questa cosa delle foibe, se ne parlava, ma non ci credevamo; sembrava impossibile come cosa. Ma magari ci sono situazioni particolari a seconda dei posti.

Ci hanno cacciati? No, si doveva fare la domanda, optare per la Jugoslavia o per andare in Italia. Noi non sapevamo che cosa sarebbe successo lì, in quella terra, dopo. Eravamo italiani e abbiamo scelto di rimanere italiani; mio fratello Armido disse che in caso di un conflitto tra Italia e Jugoslavia non voleva combattere contro altri italiani e quindi abbiamo scelto l’Italia. Ma è stata una nostra libera scelta, nessuno ci ha costretto, neanche gli slavi che vivevano attorno a noi. Pola era stato un porto importante per i veneziani e lo era anche per la Jugoslavia, andati via noi non c’era più chi lavorava al porto e da Monfalcone sono arrivati in 900 per lavorare al porto; ce l’avevano con noi perché eravamo andati via e ci consideravano fascisti.

Noi siamo partiti dopo avere fatto la domanda e siamo andati via normalmente passando il blocco tutti i parenti in fila. Nel febbraio ’47 siamo partiti sul piroscafo Toscana, o meglio, i miei sono saliti sulla nave con i documenti di tutti, ma io, mio cugino e l’amico Silvio ci siamo invece imbarcati su due barche che erano arrivate in Istria dalla zona di Lignano Sabbiadoro, barche di veneziani su cui abbiamo caricato i nostri attrezzi agricoli per portarli con noi; alla mattina presto siamo arrivati nella zona di Umago e abbiamo incrociato dei partigiani, ci hanno fermato, mi hanno detto di nascondermi, perché ero senza documenti, ma poi, sentendo parlare, sono tornato di sopra ed ho visto che avevano aperto le casse con i rastrelli, ho avuto tanta paura ma i partigiani non ci hanno detto niente, siamo rimasti a chiacchierare e poi ci hanno lasciato ripartire. Siamo andati fino a Lignano Sabbiadoro a scaricare la nostra roba, ma poi non ce la siamo portata dietro, è finita al Magazzino 18: alla fine non abbiamo portato via nulla dalla Zona B.

Non avevamo più familiari in Italia, quindi ci hanno mandati in campo profughi; abbiamo passato tre anni a Vicenza, al Collegio Cordellina allora adibito a centro profughi.

Si mangiava sempre pasta e fagioli; nel 1949 siamo arrivati a Marina di Ginosa. In seguito sono andato a lavorare a Torino. Poi sono andato in pensione nel 1984 e siamo ritornati qui a Ginosa Marina, sono residente qui dal 1986; è qui che mi sento a casa adesso.

Più che pentimento di essere venuto in Italia provo nostalgia, ma perché erano altri tempi, c’era una solidarietà che adesso non c’è più, ricordo che da ragazzi si andava a Messa in città e mentre ci si spostava in gruppo si cantava tra ragazzi, si giocava vicino al bosco, era una bella vita.

La nostra vecchia casa è abbandonata ora, le terre le lavorano ancora, funziona un centro di riabilitazione per carcerati: li fanno lavorare e gli danno una paga.

Ma nessuno ha mai raccolto questa sua testimonianza?

No, solo una volta un professore mi ha chiesto di raccontare la mia storia ma più che altro gli interessava sapere del tipo di accoglienza che avevamo ricevuto in Italia. Poi una volta in un incontro all’Auser ho parlato della storia della fisarmonica e del mitra, ma non altro.

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