DUE RECENSIONI A “FENOMENOLOGIA DI UN MARTIROLOGIO MEDIATICO”

(Sul libro «Fenomenologia di un martirologio mediatico» di Federico Tenca Montini si veda anche la pagina dedicata su questo sito)

La narrazione delle foibe

Saggi. «Fenomenologia di un martirologio mediatico» di Federico Tenca Montini, per le edizioni Kappa VU. La messa in scena della storia attraverso una serie di immagini e racconti

di Davide Conti, su Il Manifesto del 16.12.2015

Quali processi comunicativi costruiscono una «narrazione» sostitutiva della storia? Come l’immaginario pubblico viene modellato e definito intorno a codici comunicativi empatici? Quale finalità politica sottende a una operazione di questa natura? A queste domande prova a rispondere un libro ben scritto da Federico Tenca Montini, dottorando presso l’Università di Teramo, che al netto di un titolo impegnativo, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, (Edizioni Kappa VU), presenta un testo agile che affronta in modo originale i processi di composizione del «discorso pubblico» sulla questione del confine orientale.
Senza soffermarsi troppo sui permanenti temi polemici di una vicenda largamente abitata da toni propagandistici, il saggio propone più piani comparativi come misura discorsiva del ragionamento storico e proprio attraverso questa chiave di lettura restituisce un’interpretazione complessiva del come si sia giunti agli avvitamenti di significato e senso dello storia cui abbiamo assistito nel decennio delle «giornate della memoria» in Italia.
Dai voti bipartisan in Parlamento alle fiction; dai discorsi celebrativi dei presidenti della Repubblica alle messe in scena teatrali; dalla retorica della memoria condivisa all’oblio della storia del fascismo tutto ha concorso da un lato alla semplificazione della grammatica pubblica (che sottrae a categorie di già complessa interpretazione come genocidio, pulizia etnica o discriminazione il loro tratto peculiare e distintivo) e dall’altro, all’affermazione di una lettura vittimaria della storia nazionale che ha trovato il suo punto di massima forzatura nella questione delle foibe e del confine orientale, da dove il ventennio mussoliniano è espunto e sostituito da una omissiva categoria di «italianità».
In questo modo si è progressivamente assistito a una continua e faticosa torsione che non ha mancato di fornire spunti, a volte gravi, altre grotteschi: celebre l’incidente diplomatico del 2007 tra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il capo del governo croato Stipe Mesic all’indomani del primo intervento dell’ex comunista al Quirinale per la giornata del 10 febbraio; grave lo scambio di una foto più volte diffusa come «documento» delle violenze jugoslave in cui al contrario sono rappresentati soldati del regio esercito che fucilano civili sloveni, il più goffo episodio si registrò negli studi Rai della trasmissione di Bruno Vespa; surreale la sovrapposizione tra Shoah e foibe presentata da manifesti pubblici di diversi comuni (che il libro di Tenca Montini riproduce in appendice) che però serve a mostrare il significato dell’operazione mediatica ovvero l’assimilazione valoriale del conflitto fascismo/antifascismo declinato attorno al paradigma della condanna della violenza «da qualsiasi parte provenga e di qualsiasi colore sia».
La risultante visiva è stata la pianificazione di una messe di articoli, film-tv, pubblicistica varia e improbabili dibattiti televisivi che dal 2004, anno dell’istituzione per legge del «giorno del ricordo», ha investito il paese riuscendo però soltanto a comunicare dei messaggi senza mai informare realmente sui fatti, tanto che se soltanto il 6% dei maturandi scelse il tema di storia sulle foibe negli esami del 2010 più di un italiano su due dichiara di non conoscere le vicende delle foibe e dell’esodo. Se da un lato, tali scarni riscontri non rappresentano certamente una novità in termini di conoscenza della storia da parte degli italiani, dall’altro è l’assenza di un contesto narrativo completamente «raccontato» e «raccontabile» il fattore che sembra aver reso strutturalmente debole il radicamento nel senso comune del «martirologio mediatico».
L’impossibilità, vista la natura vittimistica della «operazione foibe», di ricostruire i crimini di guerra italiani nei Balcani e, più in generale, di porre il fascismo come perno del ragionamento storico ha rappresentato da sempre il vizio d’origine mai superato di una ricorrenza che già nella stessa definizione della data in cui viene celebrata (anniversario della firma del Trattato di Pace di Parigi del 1947) non nasconde la sua contraddizione implicita.
Tuttavia più che una contestazione di legittimità il lavoro di Tenca Montini, e questo appare il suo pregio maggiore, si configura come uno strumento molto utile per diffidare, decrittandola culturalmente, della costruzione mediatica del racconto del nostro passato.


Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: “Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi” di Federico Tenca Montini

da Militant Blog, 26 novembre 2015

Da ormai molti anni, siamo soliti ripetere che il piano su cui si muove l’antifascismo debba trovare appoggio su tre gambe: l’antifascismo culturale, quello sociale e quello militante. Riteniamo anche che ognuno di questi aspetti, di questi momenti, sia condizione necessaria e ineludibile affinché anche gli altri due possano esprimersi efficacemente. Per questo motivo, come collettivo, abbiamo cercato negli ultimi anni di sviluppare la nostra attività politica in questo campo contestando tutti quei momenti pubblici in cui si è cercato e si cerca di veicolare una lettura revisionista della guerra civile del 1943-45 e della Resistenza, italiana e jugoslava. Da diversi anni, infatti, ci troviamo di fronte ad una campagna revisionista che cerca di sminuire il fascismo e di criminalizzare la lotta partigiana, o comunque della sua componente maggioritaria, quella comunista. Una criminalizzazione che passa anche attraverso una rappresentazione banditesca dei cosiddetti «slavo-comunisti».
Con questo approccio, quindi, ci siamo trovati negli anni a contestare tanto volumi romanzeschi come quelli di Pansa (l’eco della nostra contestazione a una sua presentazione a Reggio Emilia nel 2006 fu tanto ampia che Pansa stesso, da allora, la ricorda in quasi tutti i suoi libri, in cui ci dipinge come i «gendarmi della memoria»), quanto spettacoli teatrali a tema storico ma di scarsa affidabilità storiografica, come quello di Simone Cristicchi. Parallelamente, in occasione dell’annuale celebrazione istituzionale del Giorno del Ricordo, abbiamo sempre cercato di organizzare iniziative che veicolassero una memoria «altra», diversa e irriducibile a quella che le istituzioni hanno cercato negli anni di proporre come memoria pubblica nazionale: il nostro intento è, soprattutto, quello di recuperare il ruolo delle masse nella storia e, con esso, la possibilità di una trasformazione radicale dell’esistente. Perché è questa che, in fondo, la campagna revisionista attuale tende a criminalizzare. E allora, negli anni, abbiamo tentato di trasformare il 10 febbraio in un giorno di lotta, di mobilitazione e di contestazione aperta delle celebrazioni, denunciandone il senso nazionalista e razzista fino a ribaltarlo nell’assunto “Noi ricordiamo… tutto”.
La difficoltà, in questa fase, è quella di sfuggire alle maglie di quello che è stato definito come un «revisionismo mediatico di massa», che costituisce l’elemento di novità rispetto agli attacchi alla resistenza comunista che pure si sono succeduti fin dal 1944-45. Contrariamente a quanto poteva avvenire fino a qualche tempo fa, infatti, non è più la ricerca storica che comunica attraverso i media, ma è la cultura politica dominante, filtrata dai media, che si impone alle istituzioni culturali e all’opinione pubblica. Il “dibattito” non è quindi più una questione tra “esperti” – gli “storici” – ma vengono utilizzati nuovi strumenti e nuovi linguaggi puntando soprattutto a colonizzare l’immaginario collettivo. Non è un caso, crediamo, che oggi due degli strumenti maggiormente adoperati a tale scopo siano proprio le trasmissioni di “informazione e approfondimento”, come il Porta a porta di Bruno Vespa, e le fiction televisive. Quest’costituiscono uno strumento di costruzione di una memoria nazionale del tutto particolare. Il telespettatore, infatti, non può scegliere cosa vedere, subisce passivamente una offerta dalla quale sono stati tolti tutti i possibili riferimenti alla storia comunista: le fiction, infatti, sono costruite in maniera tale da occultare le istanze rivoluzionarie e da esaltare le figure della pacificazione e del dialogo sociale, quelle figure che si rifanno alla tradizione del moderatismo politico e del pensiero democristiano. Non mancano rivalutazioni di fascisti e reazionari: la rilettura di questi soggetti passa attraverso la descrizione dei loro sentimenti, la bontà d’animo, il coraggio. I meccanismi sono sempre gli stessi: i fascisti sono “buoni” perché si oppongono ai nazisti e non ne condividono le atrocità della Shoah. Anzi, finiscono per aiutare gli ebrei a scappare! I comunisti, invece, sono “cattivi”, magari perché sono i comunisti jugoslavi, i “titini” che infoibano i poveri italiani d’Istria e Dalmazia.
La questione delle cosiddette “Foibe”, infatti, è paradigmatica e costituisce uno dei principali architrave su cui poggia l’intera operazione revisionista. Una questione su cui si è assistito, negli anni, a un progressivo e acritico scivolamento su posizioni che una volta erano patrimonio culturale della sola estrema destra e che oggi vedono la loro concretizzazione istituzionale nel giorno del ricordo.
Per questo, venerdì 4 dicembre, ci farà particolarmente piacere co-presentare, insieme a «Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale», alla Libreria indipendente Piuma di mare e ai compagni di Alexis, il saggio di Federico Tenca Montini Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi (Kappa Vu, 2014) che, appunto, si concentra sui modi in cui la questione delle “foibe” è stata presentata all’opinione pubblica negli ultimi venticinque anni.
Il saggio di Tenca Montini, in realtà, ha una prospettiva molto più ampia. Nella prima parte è contenuta una ricostruzione storica dell’occupazione italiana dei territori jugoslavi e degli eventi del ’43-’45. Questa contestualizzazione è particolarmente importante perché, invece, i media presentano gli episodi di resa dei conti post-bellica come se fossero il frutto non di una lunga concatenazione di eventi, ma di una presunta violenza insita nelle popolazioni slave e di un altrettanto presunto loro odio nei confronti degli italiani in quanto tali. Particolarmente apprezzabile è il fatto che l’autore sfugga in questo capitolo alla tentazione di fare il conto dei morti e di dare delle cifre che non possono che essere inattendibili, anche se forse un suggerimento almeno di un ordine di grandezza dei morti, in tanta confusione, sarebbe stato utile e apprezzabile: come ha scritto il giovane storico Damiano Garofalo, infatti, «anche se la quantificazione dei morti non può certamente essere l’elemento principale attraverso cui si costituisce un giudizio storico, è pur vero che tentare di ricostruire le discussioni sulle cifre e i dibattiti storiografici attorno ad esse è un’operazione necessaria per analizzare la costruzione delle memorie divise su qualsiasi trauma storico» (leggi). Interessanti sono anche le indicazioni che siano stati i nazifascisti per primi a utilizzare a fini propagandistici la questione delle foibe istriane del 1943 – utilizzando tra l’altro gran parte degli stilemi che abbiamo visto dagli anni ’90 in poi – e che sia stata la storiografia jugoslava per prima, nel dopoguerra, ad attestarsi su un’impostazione solo antitedesca e sulla diffusione dei mito del «buon italiano». Anche per quanto riguarda il fenomeno del cosiddetto «esodo», ci sembra molto utile il fatto che l’autore del volume ribadisca anche in questo caso che si tratta di un fenomeno di lungo periodo e caratteristico di tutta l’Europa del tempo, conseguenza dei frequenti spostamenti di confini e popolazioni, e non di una conseguenza delle foibe istriane del 1943.
Nella seconda parte, Tenca Montini spiega la parziale scomparsa della questione delle “foibe” dal dibattito pubblico già nei primi anni del dopoguerra e non certo per volontà dei comunisti. L’autore scrive, anzi, che «dopo il ’48 il monopolio del silenzio è stato piuttosto gestito dalla DC per la quale mettere in difficoltà una Jugoslavia sostenuta dal blocco occidentale avrebbe significato contrariare gli Stati Uniti» (p. 76). Questa interpretazione, tuttavia, ci sembra forse un po’ troppo semplicistica. Questo presunto «silenzio» fu in realtà molto più rumoroso di quanto si ritenga: almeno fino alla prima metà degli anni ’50, infatti, articoli sulle foibe e sull’esodo furono spesso frequenti sui quotidiani, non solo su quelli locali della zona del confine orientale, ma anche su quelli nazionali.  Ad esempio, tra gli articoli raccolti in La Stampa e la memoria. Le foibe, l’esodo e il confine orientale nelle pagine dei giornali lombardi agli albori della Repubblica, un volume a cura di Antonio Maria Orecchia, sono elencati anche brani tratti da giornali nazionali come «24 ore», «Il Tempo», «Risorgimento liberale», l’«Avanti», «il Corriere della Sera», «Il Popolo», «Il Sole», «l’Italia libera», «la Domenica del Corriere», pubblicati tra il 1945 e il 1954. Non si ebbe, quindi, alcuna «congiura del silenzio». Del resto, è lo stesso Tenca Montini ad affermare giustamente che «non si deve intendere, come si è voluto da più parti negli ultimi anni, che il tema delle foibe si sia eclissato; più verosimilmente, venne coltivato in contesti circoscritti e particolari, guadagnando visibilità a livello nazionale solo per brevi periodi e in occasioni particolari» (p. 79). In queste circostanze, comunque, le foibe venivano presentate in modo del tutto decontestualizzato, senza alcun riferimento alla durezza dell’occupazione italiana di quei territori che le avevano precedute. Ci sembra, inoltre, importante rilevare anche la scarsa fondatezza di alcune note, come quella in cui si cita un brano di Giovanni Leghissa, che afferma che «furono i movimenti sociali e gli intellettuali legati al partito comunista a far propria la tesi del fascismo quale fase transitoria e deviante della storia nazionale» (p. 83, n. 18): in realtà, come è noto, la tesi del fascismo come «parentesi», come «invasione degli hyksos» è di matrice liberale e attribuibile al filosofo Benedetto Croce, mentre i comunisti hanno sempre ovviamente prestato attenzione alle origini di classe del regime.
In questo capitolo, inoltre, sarebbe stato forse stimolante il paragone sia con l’analogo trattamento che, da parte dei media, ha avuto la questione delle rese dei conti del dopoguerra in Italia e del cosiddetto «triangolo rosso», sia con il simile processo di graduale criminalizzazione della Resistenza comunista che si è verificato in Francia, a cui abbiamo fatto accenno nella recensione  del romanzo Dopo la guerra. Non si tratta, ovviamente, di una critica all’autore (che, anzi, fa un interessante paragone con la produzione in Germania, in Polonia e in Ungheria di sceneggiati su argomenti storici discussi del passato), ma dell’esposizione di alcune curiosità che ci sono venute come lettori: ci sembra, infatti, che il confronto con la Francia (paese che condivise con l’Italia il fatto di appartenere al blocco occidentale e di avere contemporaneamente dei partiti comunisti molto forti) possa essere probabilmente più pregnante rispetto a quello con paesi che appartenevano, almeno in parte, al blocco orientale.
La questione delle “foibe” fu poi riportata alla luce negli anni Novanta, in seguito ai profondi cambiamenti che investirono la politica italiana, ma anche alla fine del governo socialista e alle guerre in Jugoslavia (in questo contesto, la rappresentazione degli «slavo-comunisti» come barbari assetati di sangue era funzionale anche, a livello propagandistico, alla giustificazione dell’attacco alla Serbia, dietro la scusa di voler tutelare la popolazione bosniaca contro l’efferatezza dei loro avversari): a nostro avviso, inoltre, non si può sottovalutare la crisi ideologica post-1989, che portò molti a voler «bastonare il cane che affoga», cioè il comunismo. Inizialmente si trattò di un fenomeno più che altro giornalistico – l’autore parla di un «revival in larga misura non pilotato e determinato da circostanze contingenti» (p. 87) – sul quale solo in seguito il mondo politico ha costruito una precisa narrazione. Essa ha avuto come cardini la legge che ha istituito il Giorno del Ricordo, la fiction Il cuore nel pozzo – di cui l’autore, come già fatto nel passato da Gino Candreva,  evidenzia in modo magistrale gli elementi fondamentali (pp. 119-128) e di cui già abbiamo avuto modo di evidenziare gli errori storici producendo il video Il cuore nel pozzo: un caso di revisionismo mediatico, citato nel volume di Tenca Montini anche se non ne viene chiarita la paternità – e il discorso di Napolitano in occasione del 10 febbraio 2007, che ha provocato una crisi diplomatica con la Croazia. Come evidenziato da Tenca Montini, nell’affermazione di questa narrazione hanno avuto un ruolo di primo piano i dirigenti politici postcomunisti, che «avvertirono il bisogno di sottolineare la propria appartenenza all’agenda patriottica della nuova stagione politica» (p. 87). L’affermazione di questa narrazione, però, ebbe una vera e propria accelerazione dopo la vittoria elettorale del centrodestra del 2001, quando cominciò a rivestire un ruolo cruciale nelle politiche culturali e «pedagogiche» del governo. Da allora in avanti la questione delle foibe e dell’esodo è stata utilizzata per la costruzione di una nuova identità nazionale italiana.
Questa narrazione si è fondata su elementi ben precisi: la presentazione dei morti nelle rese dei conti postbelliche nel confine orientale come «martiri»; il legame tra la precaria «sepoltura» nelle cavità carsiche e la richiesta irredentista di riappropriarsi di quelle terre; l’attenzione per i dettagli particolarmente violenti o truculenti, spesso inventati o comunque non registrati da alcuna fonte; l’attribuzione delle cause degli infoibamenti alla “sola” colpa di “essere italiani” e, quindi, l’insistenza su una presunta connotazione nazionale delle violenze. Il rifiuto dell’interpretazione di un’origine etnica delle violenze, tuttavia, non deve a nostro avviso condurre a una rappresentazione del governo di Tito estremamente negativa, come quando si afferma forse troppo nettamente che i sentimenti di vendetta contro il regime fascista si saldò alla «“violenza rivoluzionaria” che spazzò gli elementi economici e politici ostili al socialismo» (p. 181).
Un altro elemento molto importante ed efficacemente messo in luce dall’autore (oltre che da Damiano Garofalo nel già citato contributo) è il tentativo, soprattutto da parte degli esuli e dei loro eredi, di definire le foibe come un «genocidio», ponendo subdolamente un parallelo tra gli «infoibamenti» – intesi in senso lato – e la Shoah. Come scrive lo storico Jože Pirjevec nella bella prefazione al volume,

ogni storico degno di questo nome sa […] che le “foibe” e l’esodo degli italiani dall’Istria non sono fenomeno paragonabile allo sterminio degli ebrei, razionalmente pianificato dai nazisti nel contesto di un’ideologia, basata sul presupposto della superiorità della “razza ariana” su tutte le altre. Sa che le “foibe” e l’esodo non possono essere avulsi da un contesto storico in cui l’irredentismo prima e poi il fascismo avevano cercato di demonizzare gli “slavi”, cioè gli sloveni e i croati dall’area adriatica, vedendoli come terribili concorrenti in un territorio che doveva essere “italianissimo”. [pp. 8-9]

Questo insostenibile paragone è stato operato anche da alte cariche istituzionali come Luciano Violante che – evidentemente non pago di aver già equiparato partigiani e repubblichini nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Camera  – ha nel 1996 partecipato con Gianfranco Fini a un incontro a Trieste in cui si paragonarono le foibe alla Risiera di San Saba (p. 90), unico campo di sterminio italiano. Fissare il Giorno del Ricordo il 10 febbraio, così vicino alla celebrazione della Giornata della memoria (27 gennaio) delle vittime dell’olocausto, non poteva che mirare a sfruttarne la scia emotiva, sovrapponendosi a essa. Ancora più aberrante è la sovrapposizione nel libro Foibe Rosse della figura di Norma Cosetto con quella di Anna Frank (p. 105): l’autore del libro sulla prima, del resto, è lo stesso Frediano Sessi che ha curato la pubblicazione del Diario della seconda. La conseguenza di questo continuo attingere al repertorio della Shoah, come scrive giustamente Tenca Montini,

è la diluizione dell’eccezionalità dell’Olocausto, che viene privato della sua unicità e confuso in un complesso di eventi vagamente affini. […] Tralasciando le implicazioni di natura etica e politica, e focalizzandosi su quelle simboliche, ne risulta che la narrazione delle foibe in relazione all’Olocausto si trovi stretta in un’ambiguità fondamentale, essendo da un lato sviluppata come analogia all’Olocausto, dall’altra intesa a significare una sorta di anti-Olocausto. [pp. 105-106]

Nella terza e ultima parte si dà infine conto della difficile approvazione di un parco dedicato “alle vittime delle foibe” a Udine nel 2010.

Se questo è il quadro, se questo è il modo in cui si è strutturato il revisionismo e i risultati che ha raggiunto, bisogna dunque attrezzarsi a sostenere la sfida anche sul piano che ci viene proposto dal nemico di classe. Sapendo benissimo, come scrissero i Wu Ming, che anche se non possiamo competere con la potenza di fuoco si cui dispone il pensiero dominante, la guerra non è soltanto potenza di fuoco, soprattutto la guerra culturale.
L’attuale dominio capitalistico sul mondo è oggi senza dubbio egemonico politicamente, perché si proclama e si propone come unico modello economico e sociale possibile, anzi come unico modello immaginabile. Al tempo stesso, però, il capitalismo non può essere considerato egemonico nel senso “gramsciano” del termine. Incapace com’è, di convincere oltre che di vincere, la sua è un’egemonia senza egemonia: in questo contesto, l’immaginario e la cultura giocano una partita assolutamente decisiva si gioca intorno alla memoria e alle interpretazioni della storia. È evidente, quindi, che anche questo è un campo di battaglia che non possiamo abbandonare. La produzione di un immaginario collettivo, di miti e simboli in grado di rappresentare in forma semplificata il mondo, il nostro mondo, alludendo alla possibilità stessa di una rivoluzione dei rapporti sociali, è uno dei banchi di prova che i militanti politici non possono abbandonare. (…)

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